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Nel 2022 l’Unione Matematica Italiana compie 100 anni. Nell’attesa delle candeline, che verranno spente il prossimo 31 marzo a Bologna e poi delle più estese celebrazioni con il convegno di maggio a Padova, MaddMaths! inizia a festeggiare dando la parola ad alcuni dei personaggi che, di questo primo secolo, ci aiuteranno a ricostruire la storia. Oggi è il turno di … Ciro Ciliberto, intervistato da Silvia Benvenuti

Incontro Ciro Ciliberto con una certa trepidazione: in accordo con quanto ci ha raccontato Beppe Anichini nella prima puntata di questa serie, Ciro è uno dei presidenti Umi che più si sono spesi per la didattica e la comunicazione; come invece narrato da Angelo Guerraggio nella seconda puntata, è con Gilberto Bini l’autore della lettera con cui l’Umi prende ufficialmente le distanze dalle passate compromissioni col fascismo; nei miei ricordi di laureanda, Ciro è infine la metà di una strana entità a due teste e quattro mani, dal nome Cilibertopedrini – rigorosamente tutto attaccato – che mi affascinava ai convegni di geometria algebrica (reale), quando ancora non avevo deciso cosa fare da grande. Una personalità composita, in cui convivono tutte queste componenti: lo scienziato attento alla società, l’uomo di coscienza, il geometra algebrico appassionato della sua materia. Componenti che vedremo quindi intrecciarsi nella nostra chiacchierata. Oceanica, avverto e mi scuso: dopo aver tentato di tagliare per stare nell’ingombro adeguato per un post on line, capitolo perché tutto mi sembra ugualmente interessante…

Iniziamo dal «senso di disgusto e pena» che ha motivato Ciro e Gilberto a prendere finalmente le distanze dalla comunicazione con cui l’Umi, unica tra tutte le associazioni scientifiche italiane, si era espressa in occasione delle leggi razziali: «di fronte a un tale disastro, l’allontanamento di colleghi alcuni dei quali molto vicini a membri della commissione scientifica, il minimo che si potesse fare in un regime dittatoriale come quello era stare zitti. Prendere quella posizione fu estremamente grave. La cosa altrettanto grave è che la comunità matematica accettò quella dichiarazione senza una minima voce di dissenso. Non dico a livello pubblico, capisco la paura, a nessuno si chiede di essere un eroe, ma almeno a livello privato, per esempio con una lettera al presidente dell’Umi. Non risulta niente di simile. Non sappiamo se ci sono state prese di posizione orali, ma se ci furono non hanno portato a nessun tipo di ripensamento». L’Umi avrebbe per esempio potuto precisare che il messaggio della comunicazione era solo la richiesta di riassegnare i posti rimasti vacanti per le epurazioni alla matematica e non, come invece resta scritto nero su bianco, che “la matematica italiana non era ebrea”: «questa è una stupidaggine colossale. È una stupidaggine affermarlo così come negarlo: matematici ebrei ce n’erano e ce n’erano stati tanti, e avevano avuto un peso importante, ma questo non perché erano ebrei, perché erano italiani, e come tali avevano partecipato alla costruzione della matematica italiana». C’erano sicuramente matematici che aborrivano la posizione ufficiale: «in questo senso, l’assenza di una voce di dissenso si può leggere non solo come un eccesso di conformismo, ma anche come il segno di un completo disinteresse verso l’Umi. Questa è probabilmente la ragione dell’assenza di reazioni da parte per esempio di persone come Caccioppoli».
A ulteriore conferma del grosso imbarazzo creato dall’osservare la compromissione con il regime fascista, Ciro ci tiene ad aggiungere che, in occasione di una ricognizione fatta negli archivi dell’Umi, «è emerso che mancavano delle carte, che si riferivano proprio alla fine del periodo fascista: manca una grossa fetta di testimonianze che riguardano i rapporti politici dell’Umi con il fascismo. Questa mancanza è gravissima, qualcuno fece sparire delle carte, si possono fare congetture su chi, certo qualcuno vicino ai vertici dell’UMI di quel periodo. Purtroppo non abbiamo prove e le congetture restano tali, ma è un elemento che accresce il disagio nel giudicare quel periodo oscuro».

Già da queste prime battute inizia a delinearsi la figura del matematico che, tutt’altro che perso nell’astrazione delle sue tematiche di ricerca, è personaggio “politico” nel senso etimologico del termine, ovvero un cittadino attento alla società e alla vita pubblica. Questa caratteristica, nel Ciro presidente, emerge dalle sue scelte spesso orientate alla ricerca di un dialogo. «Ho cercato – non so se ci sono riuscito – di far uscire un po’ l’Umi fuori dal guscio dell’autoreferenzialità, dovuto in gran parte al centrare i suoi interessi sui problemi dell’Università, come se si trattasse di un piccolo sindacato degli universitari. Le cose non stanno così, secondo me: se uno si va a leggere lo statuto, che pure (vedi sopra) non è nato in un periodo di grande apertura politica e sociale, c’è il fondamentale intento di uscire fuori dall’ambito strettamente professionale e di incidere sulla diffusione della matematica nella società. Secondo me questo compito l’Umi l’ha svolto in passato ben poco in maniera consapevole e strutturata: io ho cercato di fare degli sforzi in questa direzione, e penso che di più si possa fare investendo un po’ di energie e anche un po’ di quattrini».

E sottolinea a più riprese come sarebbe necessario investire risorse per creare un ufficio stampa, magari in joint venture con altre società scientifiche, che si occupi della diffusione delle notizie, delle prese di posizione dell’unione e della costruzione dell’idea pubblica della disciplina. Sentendomi parte in causa menziono la commissione comunicazione dell’Umi, il cui scopo è appunto mantenere vivo il dialogo dell’associazione con la società: si tratta in questo caso di un gruppo di matematici di professione, «il cui impegno nella comunicazione dovrebbe essere riconosciuto, anche accademicamente. Ma non è sufficiente. Non basta che uno, per esempio, dei membri del comitato abbia delle conoscenze, perché queste andrebbero istituzionalizzate: bisognerebbe mettersi in mano a professionisti, assumere magari part time un giornalista che si occupi di consolidare i rapporti con i  giornalisti scientifici, che non sono tanti ma ci sono». E Ciro racconta come, in occasione di conferenze organizzate durante il suo mandato, cui intervenivano come moderatori giornalisti della Rai, gli sia arrivato all’orecchio che, per esempio, un personaggio mediaticamente importante come Piero Angela pensi che per la matematica gli spazi della comunicazione siano molto ristretti, e lo testimonia il fatto che nelle sue belle trasmissioni divulgative di matematica ce ne è davvero molto poca. «Probabilmente questa è responsabilità nostra, dei matematici che finora hanno in generale comunicato poco e male. La matematica risulta per lo più pesante, noiosa, inutile, ci si chiede: a che serve? E questa è una cosa bizzarra, perché a noi matematici viene facile ribattere: e allora a che servono i buchi neri? O le onde gravitazionali?»

D’altra parte sono molteplici gli aspetti della matematica che ne producono una scarsa ricezione nella società: quello più pregiudiziale è probabilmente il fatto che la matematica sembra una cosa “finita”, in cui tutto quello che c’era da fare è stato già fatto secoli fa, e ora ci si occupa solo di incamerare e trasmettere, una congerie di nozioni, senza che ci sia alcuno spazio per la creatività o la scoperta di nuove frontiere. Quei pochissimi non matematici che pensano che abbia qualcosa di creativo, credono poi che non serva assolutamente a nulla: «i ragazzini che non hanno voglia di studiare, e sono tanti, si chiedono: a che serve il teorema di Pitagora? Purtroppo spesso a questa cosa si risponde con un’alzata di spalle: il teorema di Pitagora lo devi studiare e basta. No, non funziona così! A che serve la matematica è una questione che ha la sua importanza. Ci sono cose di cui è facile vedere l’applicazione, ma ce ne sono molte altre in cui non è così. Per esempio, penso alla geometria algebrica: effettivamente è molto difficile pensare che quello di cui mi occupo io personalmente abbia un’immediata utilità pratica – però la matematica ha un’importanza come sfida intellettuale, così come lo hanno altre manifestazioni della cultura in generale:  a che serve la poesia? A che serve la musica?» E qui non posso fare a meno di pensare all’esilarante (ma profondo) Ted talk in cui Eduardo Cabezon si esprime quasi negli stessi termini

a cui Ciro aggiunge un esempio del tutto calzante: «mi risponderanno che le sinfonie di Beethoven servono perché quando le ascoltiamo ci rigeneriamo. Però il punto non è quello: pensiamo a tutta la musica che viene fatta ogni giorno e che nessuno ascolta perché è mediocre; anche quella serve, perché se non ci fosse quella non ci sarebbe stato Beethoven. Le cose non nascono sotto i cavoli, nascono per un accumulo di conoscenze, e anche la base della piramide serve, perché senza una base la piramide cade. A parte che il teorema di Pitagora serve eccome», chiosa.

In questo senso è evidente come il Covid sia stata una testa di ponte su cui si poteva e forse ancora si potrebbe intervenire, anche se «da un mesetto a questa parte è stato sopraffatto dalla guerra in Ucraina. Sicuramente la pandemia ha stimolato un interesse per i modelli matematici, e parecchi hanno capito che non solo servono, ma per certi versi sono ancora più utili dell’aspetto medico-farmacologico, nel senso che questo può servire a tamponare delle specifiche situazioni, mentre il modello dà un’idea generale dell’evoluzione di una malattia e ti fa capire come, dove e quando intervenire». Ciro sottolinea inoltre come ci sia una certa sfiducia latente non tanto verso la scienza in genere, quanto verso la medicina in particolare: «si parte dal presupposto che la medicina sia qualcosa di gente che smanetta (da cui l’idea che i vaccini siano sperimentali e noi cavie), mentre non pensa che la matematica sia una cosa da smanettoni. Ai modelli matematici viene data una certa fiducia». Purtroppo però la comunicazione scientifica a livello giornalistico anche in questa occasione è stata carente: «io non ho mai visto in televisione uno straccio di tentativo di spiegare come fosse concepito un modello matematico che descrivesse l’evoluzione del Covid. Non ho mai visto invitare un matematico di professione a spiegare in maniera semplice come funzionasse e cosa consente di prevedere: che succede se non ci facciamo le vaccinazioni? Cosa succede se non manteniamo le distanze? Se le cose non le spieghi, la gente non le può recepire: la gente comune pensa per impulsi, non per ragionamenti, anche perché non ha gli strumenti per farlo».

E va a finire che di fronte a previsioni catastrofiche che non si verificano, si conclude che ha sbagliato il modello, non che sono mutate le condizioni iniziali. Episodi come questo, osserva ancora Ciro, dovrebbero dare alla comunità dei matematici la consapevolezza che è necessario istituzionalizzare la comunicazione: «io avrei voluto farlo ma ho vissuto serie difficoltà economiche all’Umi. Anzi per un paio d’anni il nostro bilancio è andato in rosso: assumere una persona che si occupasse della comunicazione in quel momento era una cosa assolutamente impossibile. Adesso forse ci si potrebbe riuscire».

Il discorso cade quindi come inevitabile sui finanziamenti: altre discipline hanno vissuto prima di noi il problema di dialogare con la società (basti pensare alla ricerca su nucleare e ogm); i  matematici sono invece rimasti a lungo al riparo dall’urgenza di confrontarsi con i cittadini, che invece il Covid dovrebbe aver reso evidente non solo a loro, ma anche ai politici.  Che magari, osserva Ciro, a questo punto «la consapevolezza ce l’hanno, però non pensano che un investimento sulla matematica sia prioritario. Pensano: ma tanto a un matematico che gli serve, un foglio e una matita, un po’ di gesso e una lavagna. Le cose non stanno esattamente così. Certamente in matematica servono meno investimenti che per esempio in fisica: secondo me per esempio gli ERC sono sbagliati proprio concettualmente, dare un milione di euro a un matematico serve solo a complicargli la vita. Da ottimo matematico che è, il vincitore di una somma simile diventa un manager della matematica, cosa che non va bene. Quindi effettivamente tutti ‘sti soldi in questa forma non servono: però un po’ ci vogliono, perché servono per l’appunto per la comunicazione, per incontrarsi, per parlare, per fare rete, visto che ormai si è capito che il progresso nelle scienze è fortemente stimolato dalla collaborazione scientifica a livello internazionale. Una cosa molto strana è che questo fatto a livello europeo non si sia capito: ci sono pochi soldi investiti per reti e molti investiti per singoli ricercatori, il che secondo me è sbagliato».

Ed è ancora il tema dei soldi a portarci all’ultimo degli aspetti di cui vogliamo parlare, ovvero la scuola. «Uno dei problemi grossi della matematica è il fatto che la carriera dell’insegnante non è per niente attrattiva a livello economico, e ormai non lo è più nemmeno dal punto di vista sociale; di conseguenza i nostri laureati, che trovano lavoro facilmente in molti altri settori, l’insegnante magari non lo fanno, a meno che non siano particolarmente appassionati, oppure costretti dalle circostanze. Io quando sono stato presidente ho battuto molto su questo tasto col Ministero:  al giorno d’oggi se fai l’insegnante, e hai quindi uno dei ruoli più delicati nella società, finisci per essere considerato praticamente un paria, persino i ragazzini ti prendono a pernacchie, e questa è una cosa molto grave. In questo momento di difficoltà economica, le cose peggiorano ancora: nella casa di un/una docente, dove entra magari solo il suo stipendio, oggi che ogni due mesi ti arrivano bollette da 500 euro non dico che si faccia la fame, ma quasi».

Ciro è stato, assieme a Carlo Sbordone, uno dei presidenti Umi che hanno preso più a cuore il tema della scuola, nella convinzione che se da una parte rappresentare gli interessi degli universitari è importante, il fatto che l’Umi si occupi dei problemi della scuola lo è ugualmente, o forse di più. Questo per due motivi principali: da una parte «molti soci sono docenti, quindi questa rappresentanza l’Umi la deve sentire; dall’altra, si tratta di un impegno sociale. Dal medico ci andiamo raramente, solo quando abbiamo mal di pancia; a scuola invece ci andiamo tutti più volte nel corso della vita – ci andiamo noi in prima persona, ci torniamo quando ci vanno i nostri figli, e poi quando ci vanno i nostri nipoti. Quindi a varie riprese siamo portati a occuparci, e in qualche modo a dipendere, dalla scuola, che dunque permea la nostra vita dall’inizio alla fine – non solo per quelli di noi che se ne occupano a livello professionale».

Diventa quindi fondamentale che il presidente dell’Umi se ne occupi in prima persona, invece che delegare, per esempio alla Ciim. Secondo Ciro i presidenti dell’Umi dovrebbero conoscere a fondo tutti gli argomenti di discussione all’interno della Ciim, «che non può e non deve essere un corpo separato dal resto dell’unione matematica italiana. Altrimenti finisce che l’Umi si divide in due tronconi, che si occupano uno dell’università e uno della scuola, senza che queste due parti si parlino. E invece questo dialogo è fondamentale per entrambe le parti: gli universitari devono essere ben consapevoli dei problemi della scuola e di quelli della ricezione della matematica nella società. D’altra parte coloro che si occupano di didattica nella scuola hanno bisogno di avere degli input che vengano da fuori del loro enclave». Se invece le due entità si cellularizzano, il pericolo è duplice: innanzi tutto, gli universitari finiscono per essere completamente estranei ai problemi della scuola (salvo poi lamentarsene tutti gli anni di fronte all’impreparazione vera o presunta delle matricole); inoltre, «chi si occupa della Ciim, essendo di solito impegnato nella ricerca in didattica della matematica, rischia di dimenticare che una cosa è occuparsi di didattica a livello scientifico, un’altra è occuparsi della matematica nella società e in particolare nella scuola: a far prevalere il punto di vista della ricerca sulla didattica nella scuola faremmo lo stesso errore che potrei fare io nel voler imporre nei corsi universitari quelle che sono le mie preferenze a livello di ricerca in geometria algebrica: non è una cosa sensata».

Da qui l’impegno di Ciro sia nel tenere in piedi il dialogo tra le due entità, che nel cercare di portare i problemi di cui si occupa la Ciim su quelli concreti della pratica didattica. Che Ciliberto abbia a cuore, ancora oggi, i problemi concreti, è evidente dalla passione con cui affronta quello che sarà l’ultimo tema della nostra chiacchierata: «io mi sento fremere quando sento parlare dell’esame di stato, che viene modificato ogni due o tre anni. Per via del covid avevano abolito la seconda prova; ora il ministro Bianchi, in un attimo di resipiscenza, la reintroduce: è un’ottima idea, di fronte alla quale naturalmente gli studenti protestano ma noi dobbiamo tener duro. Tuttavia questa seconda prova è stata degradata a esercizietto dato dai loro professori: la commissione è infatti formata da docenti della scuola a cui si aggiunge un commissario esterno, e sono loro che devono preparare la seconda prova, che così diventa una prova di livello inferiore, anche perché conta meno dal punto di vista della valutazione del candidato. Non che le prove fatte a livello centralizzato fossero sempre dei capolavori. Ma così va a finire che a un ragazzo che esce da un liceo scientifico non gli chiedi praticamente niente di matematica, seriamente. A uno che esce dal liceo classico non gli chiedi uno straccio di latino, seriamente. Gli fai fare una cosa proposta dai suoi professori, i quali naturalmente avranno tutto l’interesse a far vedere che i loro studenti sono bravissimi, e quindi gli chiederanno rosa-rosae. E questa è una cosa di una gravità inaudita. Speriamo che questo sia solo limitato a quest’anno per via degli strascichi del Covid e che nel prossimo futuro si torni ad una maggiore serietà».

E con vero fervore Ciro sottolinea che l’Umi su questa cosa dovrebbe prendere delle posizioni molto nette, ribadendo che la seconda prova dev’essere intanto uguale per tutti, e poi non una farsa, ma «una cosa seria, almeno quanto la prima, se non di più, perché è quella che caratterizza il tipo di scuola».

Il punto cruciale è che questioni come queste incidono profondamente sul riconoscimento sociale dei docenti: «mi hai fatto insegnare matematica per 5 anni in un liceo, e poi alla fine praticamente mi dichiari che questo non serve a niente, stabilisci che tutto quello che ho insegnato per anni è quasi irrilevante ai fini della maturità, che dovrebbe essere una cosa importante, il primo esame serio.  Una cosa è che mi hai sospeso la prova per due o tre anni per via del Covid; un’altra è che fai una riforma in cui statuisci che è una farsa». Difficile non essere d’accordo.

Silvia Benvenuti

p.s. chi ha letto fin qui riflette forse adesso sul titolo, e di conseguenza sulla faccia che manca all’appello. Per riscostruirla senza allungare ulteriormente l’intervista, tornate a quella di Beppe Anichini…

Silvia Benvenuti

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