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Palline di carta accartocciate, cristalli perturbati, bolle che si uniscono, queste sono solo alcune delle cose che studia Francesco Maggi, un giovane matematico fiorentino con una grande passione per Bob Dylan…

 

Q.: Chi sei, cosa fai, quanti anni hai?

A.: Di anni ne ho 32, questo è l’unico dato certo direi, che ti posso fornire. Faccio il ricercatore presso il Dipartimento di matematica dell’Università di Firenze e mi occupo di Calcolo delle Variazioni. Problemi variazionali di tipo geometrico, disuguaglianze isoperimetriche, superficie minime, disugaglianze funzionali. Come interessi di ricerca, mi sono occupato delle applicazioni alla meccanica dei continui, quando ho lavorato in Germania, prima di venire qui.

 

Q.: Con chi hai lavorato in Germania?

A.: Allora, sono stato a Lipsia e ho lavorato con Sergio Conti e poi anche a Duisburg. Con lui ho fatto un lavoro che allora ci divertì molto. Cioè il problema di prendere un foglio di carta e appallottolarlo e capire quanta energia elastica spendi in relazione allo spessore del foglio. E qui c’è una legge curiosa, congetturata da dei fisici ed ingegneri, che postula che l’energia elastica che spendi sia proporzionale allo spessore del foglio alla potenza 5/3.

 

Q.: Ah, e perché 5/3?

A.: È una cosa un po’ curiosa. C’è una competizione tra il fatto che un foglio elastico sottile un po’ spende per piegarsi, ma quando tu fai veramente una pallina di carta hai delle zone in cui si piega in maniera gentile, e va quindi come lo spessore al quadrato, che è il raggio di curvatura di un cilindro infinitesimo, mentre poi ci sono delle zone interessanti dove vengono formati dei vertici. In particolare, veramente interessanti sono le coppie di vertici. In corrispondenza delle coppie di vertici la curvatura diventa altissima vicino al vertice, e piano piano si allarga, la curvatura, e contemporaneamente c’è una tensione che si muove lungo il vertice. Il foglio viene da una parte stirato, vicino ad un vertice, per cui non è più solo energia di piegamento, ma è la competizione tra un piegamento, di passo variabile, e una tensione lungo la linea della piega. E questo produce questo esponenete 5/3 per lo spessore (N.d.R.: ossia serve un’energia molto più grande di quella che uno si aspetterebbe). E noi abbiamo dimostrato un Teorema in cui si vede che puoi sempre fare questo confinamento spendendo questo quanto di energia.

 

Q.: Ho capito. E come applicazione, cosa si cercava di dedurre da questo tipo di legge?

A.: Non lo so realmente. (Ride). Ora l’ho spiegato con il foglio di carta che non è un esempio buono perché non è perfettamente elastico. D’altra parte anche la lamiera di una macchina dovrebbe avere un comportamento simile se è sottoposta a forze abbastanza intense. Più in generale questo tipo di risultato riguarda la meccanica degli oggetti sottili in una delle dimensioni, che è un tema ingegneristico molto importante. E questo è un fenomeno non lineare, che si spiega fino ad un certo punto linearizzando brutalmente, e che richiede di capire della matematica interessante. Infatti dietro alle cose che abbiamo studiato ci sono anche dei problemi puramente matematici non risolti. Ci sono dei teoremi di geometria differenziale, ci sono costruzioni esplicite in cui puoi avere veramente l’intuizione fisica di quello che stai facendo.

 

Q.: Più in generale, tu ti occupi di disugaglianze isoperimetriche. Prova a spiegare rapidamente di che si tratta.

A.: È un campo affascinante perché i problemi sono semplicissimi. Il problema isoperimetrico euclideo richiede di minimizzare il perimetro a volume fissato. Quindi uno cerca una regione dello spazio che racchiuda un certo volume, usando per fare questo una superficie minima. E la soluzione, lo sanno oramai tutti da duemila anni, è la palla. Chiaramente questo problema si può complicare in vari modi. Quello di cui mi sono occupato io è questo. Nella realtà non si vede mai una palla esatta. La soluzione è sempre perturbata, e ci sono degli effetti di sottofondo che rendono la cosa diversa. Allora mi sono interessato a questioni di stabilità. Vorresti dire che la tua bolla di sapone sta minimizzando il perimetro a volume fissato, ma poi hai un po’ di gravità o altre forze esterne, e allora cosa succede? In che senso osservo ancora una bolla? Sono domande classiche. Che ricalcano il canone del problema ben posto: esistenza, unicità e stabilità delle soluzioni. E quello che abbiamo fatto con Nicola Fusco, Aldo Pratelli e Alessio Figalli, in una serie di lavori in cui si studiano questi problemi, e in cui abbiamo stabilito dei risultati nuovi di stabilità, in cui quantifichiamo in termini dell’energia del sistema quanto l’oggetto che osservi sotto una perturbazione è lontano dall’essere una palla. E questo lo abbiamo fatto sia per questo principio euclideo che ti dà la sfera, sia per il principio di minimo che genera i cristalli. Un cristallo in prima battuta si forma con lo stesso principio, solo che al posto di minimizzare il perimetro, che è un oggetto isotropo, ossia non c’è una direzione previlegiata, il cristallo ha una struttura atomica particolare che previlegia delle direzioni, per cui se macroscopicamente devi attaccare delle facce di cristallo, vi sono delle direzioni preferite. E noi abbiamo fatto un teorema per il principio variazionale che sta dietro a questa questione. Anche se il problema è simile, le dimostrazioni sono in realtà molto lontane, basate su idee geometriche diverse. In pratica c’era un risultato parziale non ottimale di Fusco, Esposito e Trombetti, che siamo riusciti a migliorare rendendolo ottimale. E la cosa più interessante per i matematici è stata la tecnica utilizzata, che si basa sul trasporto ottimale di Yann Brenier. Che in questo caso ha una marcia in più rispetto alle mappe di trasporto standard che sono non ottimali.

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Q.: E di cosa ti stai occupando più recentemente?

A.: Allora, quando leggeranno questa intervista le persone si metteranno a ridere. Per uno che ha fatto una bolla e un cristallo, qual’è il problema successivo? … Due bolle! (ride). Seriamente, questa è una questione che mi sta a cuore. Quando uno fa le bolle di sapone spesso vede che le bolle si attaccano. E una ventina di anni fa Frank Morgan e alcuni suoi allievi si sono resi conto che nessuno si era mai preso la briga di dimostrare che, se tu vuoi separare due volumi, due zone dello spazio, il modo migliore di farlo è di attaccare tre calotte sferiche con opportune curvature. Per cui se devi racchiudere due volumi esattamente identici nello spazio, attaccherai due calotte sferiche con un’interfaccia piatta. Se i volumi sono diversi, una delle due pallette si deve stringere e devi fare un’interfaccia tonda che si attacca a 120 gradi all’altra sfera. Questo è il teorema della doppia bolla standard che è stato dimostrato in nel 2002 in tre dimensioni da Morgan e altri su Annals of Mathematics, un risultato di grandissimo rilievo, ed è poi stato dimostrato in tutte le dimensioni. E questo è un problema “ganzissimo” perché, insomma, per dimostrare un teorema di stabilità si parte di solito dal fatto che quell’oggetto che perturbi è ottimale e cerchi di perturbarlo. Quindi tanto più la dimostrazione di ottimalità è efficiente e tanto più sarà facile dimostrarne la stabilità. Nel caso della doppia bolla questa dimostrazione di ottimalità è nota per  la sua bellezza, ma anche per la sua complessità ed è praticamente impossibile utilizzarla per provare la stabilità. Ora, recentemente, Marco Cicalese e Gian Paolo Leonardi hanno trovato una dimostrazione alternativa al teorema della bolla semplice, che utilizza delle idee completamente nuove e che mi ha molto affascinato. Parlandone con loro abbiamo discusso sulla possibilità di estenderla al caso della doppia bolla e lavorandoci un po’ ci siamo accorti che la situazione con due bolle è veramente diversa e pone una sfida veramente interessante. Ci stiamo lavorando e abbiamo per ora un’idea del percorso che intendiamo seguire, ma ci sono delle grosse difficoltà poste dalle singolarità presenti nelle regioni di attacco.

 

Q.: Ok, beh, in bocca al lupo. Ora però cambiamo argomento. Perché hai cominciato a fare matematica?

A.: Ho cominciato per caso. Ero iscritto a Architettura e bocciai il test del numero chiuso. Ero il terzo degli esclusi e speravo mi avrebbero richiamato, per cui, dovendo iscrivermi per poi fare in seguito il passaggio, presi la guida dello studente e mi incuriosì molto il corso di Laurea in Matematica. Sembrava filosofia a leggere i programmi. E poi era vicino casa e c’era lezione solo la mattina. Insomma era come continuare il liceo, solo più vicino a casa. E così, comincia a frequentare e scoprii che, oltre ad essere comodo, era anche molto interessante, e insomma … sono rimasto.

 

Q.: Quand’è che hai capito che potevi fare della ricerca di alto livello?

A.: (ride).

 

Q.: Vabbè, forse non lo hai ancora capito…, ma insomma quando hai sentito che quello che facevi aveva un senso?

A.: Mah, non lo so francamente. Sicuramente una cosa che mi piace moltissimo è l’interazione con le persone. Che discutendo si tira fuori gli uni dagli altri molto più di quello che da soli sapremmo fare. Sicuramente il lavoro fatto con Figalli e Pratelli sulle disuguaglianze dei cristalli mi ha dato una grossa soddisfazione, perché mi ha permesso di mettere insieme delle cose che avevo fatto prima, con la mia passione per il trasporto di massa. Ma insomma in generale, mi è piaciuto lavorare con queste persone, tutti molto bravi, e poi inoltre con Nicola Fusco, Cedric Villani, Sergio Conti, che mi hanno insegnato tanto. E quindi, piano piano, più che in un singolo momento, ho acquisito maggiore fiducia in me stesso. Passano gli anni e e sei sempre lì che fai i teoremi. Insomma, non c’è stata l’epifania, ma più un processo continuo di invischiamento nella cosa.

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Q.: Ho capito. Senti, e com’è che ancora non sei andato all’estero?

A.: Ci sono stato e avevo anche un contratto per 6 anni in Germania, quando ho vinto il posto da ricercatore in Italia.

 

Q.: Va bene, ma perché, potendo stare all’estero, hai scelto di ritornare in Italia?

A.: Beh, al livello economico e scientifico non ci sarebbe stato motivo. Hanno politiche molto serie per l’Università per loro fortuna. Piuttosto per ragioni personali. Per stare nel mio Paese, dove comunque vivo meglio. Uno non lavora e basta, ha anche voglia di stare con gli amici. Non è solo una questione di legami personali. È proprio una questione di respirare l’aria del proprio paese. Certo, c’è chi si innamora di un altro paese. Conosco gente che si è sono molto ben integrata in Germania, per esempio. Ma insomma a livello peronale non mi posso troppo lamentare. Partecipo a due progetti europei, uno di Fusco e uno di Pratelli, per cui problemi di fondi per ora non ne ho avuti. Certo a volte uno si chiede quale sia la possibilità di fare carriera, perché da ricercatore a volte vivi la situazione dell’università in modo un po’ scoraggiante. Sei confinato alla didattica e di più non dimandare. Invece sarebbe utile se a prendere le decisioni fossero le persone che in qualche modo tirano scientificamente. Invece l’unica cosa chiara della riforma in atto è che per contribuire al processo decisionale devi avere il titolo di Professore Ordinario, anche se fosse solo per comprare una penna. Mentre è chiaro che a tutti i livelli ci sono persone valide che potrebbero contribuire. Insomma, c’è anche questo nel restare in Italia, e per ora uno lo pondera piano piano. Magari un giorno cambierò idea e deciderò di trasferire baracca e burattini da un’altra parte, ma insomma non per ora.

 

Q.: E cosa pensi di fare scientificamente nel futuro. Pensi di continuare a fare sempre quello che stai facendo, o a un certo punto ti lancerai in qualche cosa di nuovo, in cui avrai la piena autonomia?

A.: In realtà la piena autonomia l’ho sempre avuta, anche quando ero in Dottorato. Ho sempre scelto di fare cose che mi interessavano, interagendo con chi condivideva questi interessi. Chiaramente, una cosa che mi piacerebbe fare sempre di più sarebbe quella di allargare i miei interessi, cercando di fare ricerca su cose nuove. Però è chiaro che una certa pressione a produrre c’è, per cui non penso di mettermi domani a fare geometria algebrica, senza scrivere una riga per dieci anni. Questa cosa la fai andando su problemi contigui e lavorando con persone nuove. Però è importante continuare a spostarsi.

 

Q.: Muoviamoci ora al di fuori dell’ambito matematico. Quali sono i tuoi interessi personali a parte la famiglia?

A.: Sicuramente la musica è una cosa che mi prende molto. Io suono la chitarra. E mi piace molto suonare per gli altri. Mi piace suonare per la famiglia, mia mamma ne sa qualcosa, mi ha sentito imparare tutto il repertorio di Bob Dylan in cucina, cantando e suonando l’armonica. (ride). E quindi suonare con altri musicisti., anche se nell’ultimo periodo ho avuto meno possibilità di farlo. Mi piace anche conoscere musica nuova, studiarla. Se mi piace un gruppo, ascolto tutto quello che ha fatto. E mi piace scoprire generi nuovi. A volte c’è gente che apprezza un genere che se tu lo ascolti la prima volta ti sembra sia inascoltabile. In questi casi cerco di capire cosa c’è dietro e si scoprono cose interessanti.

 

Q.: Con Cedric Villani avete parlato di musica? Lui è un bravissimo pianista…

A.: Beh, una volta a un convegno mi ha chiesto di suonare “Oxford Town”di Bob Dylan. Ma insomma lui è più appassionato al classico, mentre io mi dedico maggiormente al repertorio Rock-Blues-Folk.

 

Q.: Ho capito. E hai altri hobby?

A.: Sì, i fumetti sicuramente, principalmente le graphic novels e questo genere di cose. Per me sono piacevolissimi e hanno un coinvolgimento emotivo particolare, forse perché ci sono le figure (ride).

 

Q.: E chi sono i tuoi autori preferiti?

A.: Beh, ci sono gli straclassici come Alan Moore o Frank Miller o anche Eisner, ovviamente. E poi cerco di leggere anche altri autori. Recentemente mi è piaciuto molto “Black Hole” di Charles Burns,“Persepolis” di Marjane Satrapi e poi anche i manga di Jiro Taniguchi. Insomma, una vera passione. Nell’ultimo trasloco ho dovuto vendere 850 fumetti al negozio di fumetti locale, non ci stavano più in casa…

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