Per quale motivo hai deciso di fare matematica? Ci racconti un po’ il tuo percorso di studi, come sei arrivato all’ETH di Zurigo?
La prima domanda, ovvero quale motivo mi abbia spinto a fare della ricerca matematica la mia professione, è di certo lecita, ma nella sua semplicità ed ampiezza mi intimidisce un poco. Potrei ripetere che nella matematica ho intravisto, già nei miei anni da studente liceale, la suprema bellezza, una bellezza austera e senza tempo come quella della scultura, della statuaria antica di Fidia e di Prassitele, ma questa sarebbe per molti versi una risposta insoddisfacente. La verità, in estrema sintesi, è che ho scelto di percorrere questa strada molto tempo fa mosso da un’attrazione naturale per questa disciplina e le sue infinite sfide, e sono andato avanti un passo dopo l’altro senza mai voltarmi indietro. Il percorso che mi ha portato qui è stato complesso, ma entusiasmante, caratterizzato da una moltitudine di luoghi e di persone, e da un singolare intreccio di vicende umane e scientifiche.
Ho studiato dapprima a Pisa, come allievo della Scuola Normale Superiore, e di quegli anni conservo in effetti ricordi splendidi, non solo per i molti maestri che ho incontrato, ma anche per le tante e profonde amicizie che ho vissuto, che mi hanno plasmato come persona e che continuano a caratterizzare la mia vita. Ma le grandi storie d’amore sono spesso tali anche e proprio perché sono limitate nel tempo, insomma perché finiscono e perché nel terminare vengono eternate anziché sbiadire, e dunque per farla breve decisi verso la fine dei miei studi che sarebbe stato opportuno continuare altrove, per cui dopo la Laurea Specialistica mi trasferii a Stanford dove avrei poi conseguito il mio dottorato di ricerca sotto la direzione di Richard Schoen. Ho avuto in seguito posizioni di ricerca a Berkeley e a Londra, prima di trasferirmi in Svizzera.
Ricordi qualcuno che è stato importante nella tua formazione?
Certamente, di nomi ne potrei fare molti e sono felice di non esimermi dal farli. Anzitutto, non posso dimenticare il mio insegnante di matematica e fisica del liceo, Luigi Cariolato, un vero fuoriclasse da tutti i punti di vista, un esempio di passione e dedizione.
Venendo poi agli anni pisani, sono grato a Luigi Ambrosio per aver contribuito in modo determinante alla mia formazione e per avermi introdotto con grande professionalità alla ricerca matematica. Un posto speciale lo riservo anche, senza ombra di dubbio, ad Andrea Malchiodi, che conobbi in occasione di una conferenza alla Scuola Normale e che accettò subito, con grande fiducia e generosità, di seguirmi come relatore della mia tesi di Laurea Specialistica e con il quale ho continuato poi a collaborare su vari fronti, sempre beneficiando del suo entusiasmo e della sua squisita cordialità. Ed infine, ho imparato moltissimo dal mio advisor a Stanford, Richard Schoen, che più di ogni altra persona ha plasmato il mio stile ed il modo in cui mi accosto ai problemi.
Qual è il tuo principale interesse in matematica, la direzione principale della tua ricerca?
In senso ampio, si potrebbe dire che mi occupo di analisi geometrica o magari, in termini più classici, di geometria differenziale. A livello più specifico, la quasi totalità dei miei lavori riguarda geometric variational problems ovvero questioni varie inerenti oggetti geometrici che minimizzano (o massimizzano) una certa quantità. Un esempio semplice è fornito dalle superfici minime, che nel setting più elementare sono quelle superfici che hanno la più piccola area possibile tra quelle aventi bordo assegnato, coincidente diciamo con una curva chiusa nello spazio tridimensionale in cui viviamo. Ora, dato questo scenario uno si può porre vari tipi di domande. Da un punto di vista analitico ci si può chiedere se tali superfici siano lisce oppure abbiano delle singolarità, diciamo degli spigoli e dei luoghi non regolari di tipo più complicato. Queste sono domande che hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’analisi matematica nel corso del ventesimo secolo, domande di natura prettamente locale e che si intrecciano con questioni profonde relative alle equazioni alle derivate parziali di tipo ellittico. D’altro canto, uno può porsi domande di tipo globale, ovvero se sia possibile ad esempio legare la struttura topologica delle superfici minime alla forma del bordo che si impone. Ecco, diciamo che negli ultimi anni mi sono occupato molto di questioni globali inerenti (iper)superfici minime in varietà riemanniane, ed in modo particolare al confronto tra vari concetti naturali di complessità per questo tipo di oggetti, in primis al confronto tra invarianti topologici (numeri di Betti) ed invarianti analitici (indice di Morse). Su un fronte apparentemente molto diverso, ho anche studiato a fondo la comparsa di questi oggetti variazionali (superfici minime, e più in generale superfici a curvatura media costante) in spazi asintoticamente piatti, ovvero in quegli spazi geometrici che emergono in relatività generale quando si vogliono descrivere sistemi gravitazionali isolati, come ad esempio un cluster di pianeti.
Potresti individuare il tuo miglior risultato finora, la cosa di cui sei veramente fiero?
Il risultato che viene più spesso associato al mio nome è senza dubbio la costruzione di soluzioni esotiche delle equazioni di Einstein, un lavoro che ho scritto con Schoen durante il mio ultimo anno a Stanford. Per cercare di spiegare il significato e la rilevanza di queste soluzioni, devo fare una piccola digressione. Classicamente, nella teoria newtoniana, la gravità viene descritta come una forza che agisce a distanza: due corpi massivi, posti in due punti qualsiasi dell’universo, avvertono istantaneamente la presenza l’uno dell’altro. Già verso la fine del diciannovesimo secolo si comprese come questo principio, ovvero la possibilità di propagazione di segnali fisici a velocità infinita, fosse in contrasto tanto con l’impianto teorico che si andava allora costruendo per descrivere i campi elettromagnetici quanto con varie forme di evidenza sperimentale. Einstein propose perciò un nuovo, radicalmente diverso, modo di descrivere le forse gravitazionali, poggiante in particolare sugli assiomi della relatività speciale, uno dei quali asserisce essenzialmente che esiste un limite esplicito alla velocità di propagazione dei segnali fisici, rappresentato dalla velocità di propagazione della luce nel vuoto. Bene: Schoen ed io abbiamo sviluppato un metodo generale per costruire soluzioni ad N-corpi delle equazioni di Einstein, tali che ciascuno dei corpi considerati non avverta affatto la presenza degli altri N-1 su scale di tempo arbitrariamente grandi. In altri termini, si parla di soluzioni che esibiscono un gravitational shielding ovvero la gravità generata da ciascuno corpo è schermata e non percepibile dagli altri, a meno di aspettare tempi estremamente lunghi (in un senso che può essere chiarito in modo molto preciso).
Ora, queste soluzioni sono del tutto compatibili con gli assiomi della relatività generale, ma mostrano esplicitamente dei fenomeni non presenti in alcuna delle altre classi di soluzioni precedentemente conosciute, insomma ci sono voluti circa cento anni affinché questo gravitational shielding potesse essere esibito concretamente. Va poi detto che queste soluzioni possono essere anche considerate come oggetti puramente geometrici, ed in quanto tali possiedono parimenti delle proprietà assai sorprendenti, ed in forte contrasto con molti risultati classici inerenti la geometria degli spazi di tipo Schwarzschild.
Ho presentato queste soluzioni, e la storia della loro scoperta, nella mia lezione inaugurale qui all’ETH mentre per una descrizione più approfondita, ma comunque rivolta al general mathematical audience, mi permetto di segnalare la splendida lezione tenuta da Piotr Chrusciel a Parigi nel novembre 2016, in occasione del Séminaire Bourbaki intitolato “Anti-gravité à-la Carlotto-Schoen”.
Quali sono i tuoi “dream problems”?
Ne ho moltissimi, anzi devo dire che uno dei punti di forza di Schoen come advisor è senza dubbio l’esporre i propri studenti ad una grande varietà di problemi, spesso apparentemente distanti gli uni dagli altri ed afferenti ad ambiti diversi dell’analisi geometrica. Non è certo il tipo di relatore che suggerisce allo studente di turno un progetto da sviluppare nel corso del dottorato, un progetto studiato e controllato a priori, ma al contrario trovarsi un buon problema (ovvero un problema che sia allo stesso tempo interessante e fattibile) è una delle sfide che i suoi studenti di PhD si trovano regolarmente ad affrontare. Io ho letto un numero piuttosto enorme, direi quasi spaventoso, di articoli prima di convergere ad una linea di ricerca abbastanza precisa. Un processo di questo tipo è necessariamente time-consuming ed apparentemente improduttivo ma l’aspetto positivo è che si costruisce un background molto ampio che risulta fondamentale nel lungo termine. Nel mio caso, ho iniziato a collezionare problemi aperti verso la fine del secondo anno a Stanford, ed ora ho una lista che ne contiene circa ottanta (che aggiorno sistematicamente, dato che qualcuno di questi problemi viene risolto e molti nuovi problemi si vanno definendo). In questa moltitudine, sono sempre stato particolarmente affascinato dai problemi di classificazione. Un esempio elementare di problema di classificazione è la questione di determinare tutti e soli i poliedri regolari ovvero i poliedri convessi aventi tutte le facce congruenti, e tutti gli angoloidi uscenti da ciascun vertice congruenti. Si deve ad Euclide la prima dimostrazione che di tali poliedri ne esistono soltanto cinque, poi noti come solidi platonici, il che risulta in effetti piuttosto sorprendente dato che la analoga questione in geometria piana, ovvero su quanti e quali siano i poligono regolari, ammette una risposta del tutto diversa poiché esistono ovviamente infiniti poligoni regolari, uno per ogni intero maggiore di due.
Nel campo delle superfici minime, i problemi di classificazione abbondano ed alcuni di questi sono oggetto della mia ricerca attuale.
Come passi il tuo tempo quando non lavori?
Questa domanda me ne fa venire in mente una analoga che posi una decina di anni fa ad Elias Stein, uno dei giganti dell’analisi armonica, che all’epoca si trovava a Pisa per collaborare con Fulvio Ricci. Alla domanda se avesse degli hobbies al di fuori della matematica lui mi rispose “Sure, Number Theory!” il che rende l’idea del livello di maniacale concentrazione che caratterizza, almeno talvolta, la vita di chi si occupa di ricerca scientifica, e nel nostro campo in modo particolare. A volte questo tipo di risposta andrebbe bene anche a me, nel senso che quando sono immerso in un progetto e, per esempio, vedo vicina la fine di un articolo, mi ci dedico con una intensità che lascia poco spazio ad altri tipi di attività. Ma detto questo, quando esco dal lavoro ad orari ragionevoli amo moltissimo passeggiare in centro, e poi vado a correre sul lungolago almeno tre o quattro volte la settimana, senza dimenticare il nuoto che è stato la mia attività di riferimento per molti anni, specie quando vivevo in California.
Poi mi piace viaggiare, ho come un bisogno fisico di cambiare aria periodicamente e di lasciare il mio contesto lavorativo per sperimentare altri luoghi, altre attività ed altre persone. Viaggio moltissimo per lavoro, ma cerco anche di viaggiare anche solo per piacere, di tornare periodicamente nei miei luoghi del cuore, o magari di scoprirne di nuovi. In certe fasi cerco la quiete della montagna, in altre non trovo nulla di più appagante di una camminata nel centro di Londra, diciamo a Knightsbridge o a Mayfair.
Quali sono i tuoi scrittori preferiti?
Diversamente da quanto pensa la stragrande maggioranza delle persone che mi conoscono, almeno superficialmente, tendo a leggere molto poco al di fuori della mia attività professionale. Tendo semmai a privilegiare altre forme d’arte, soprattutto la pittura e la musica classica, ed anche quando leggo lo faccio con uno stile molto personale, lentamente e ritornando molto su alcuni passi, quasi memore delle parole di Plutarco che ci ricorda come la mente non sia un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere (di amore ardente per la verità).
Un’ultima domanda, di carattere generale. Cosa ti auguri per la matematica nei prossimi anni?
Questa è una domanda impegnativa, ma straordinariamente affascinante. Da un punto di vista umano, mi auguro che si riesca in qualche modo, per esempio a livello di concorsi a cattedra, ad incentivare la pubblicazione di pochi articoli di livello alto rispetto ad un grande numero di lavori di livello basso, penalizzando insomma la prassi sempre più diffusa a scrivere molti articoli che sono semplicemente variazioni su un tema dato, rendendo così il sistema sempre più congestionato nella misura in cui questi lavori vengono poi inviati alle riviste e devono quindi essere letti, compresi e valutati. Trovo che in matematica si tenda talvolta a perdere un po’ di vista il concetto vero di progresso scientifico, che si punti cioè ad avere una lunga lista di pubblicazioni piuttosto che a capire, veramente appieno ed in profondità, un certo problema. Trovo che vi siano troppa fretta e troppa pressione, e sta a chi valuta chiarire i valori in gioco, i valori che meritano veramente di essere premiati.
Da un punto di vista strettamente scientifico, penso che una sfida intellettuale smisurata sia posta dal problema della verificabilità delle dimostrazioni, un problema al quale Voevodsky ha dedicato buona parte dei suoi sforzi negli ultimi dieci anni. Di fronte allo sconcertante sviluppo tecnico della nostra disciplina, alla sua specializzazione e settorializzazione estrema, si pone insomma in maniera sempre più drammatica il problema di capire se un certo risultato sia vero o meno, o più precisamente se la sua dimostrazione sia in effetti corretta. In pratica, queste verifiche vengono affidate alla stessa comunità matematica, per esempio agli esperti selezionati dalle riviste a cui gli articoli in questione vengono inviati, ma è sempre più chiaro a noi tutti che, per tutta una serie di ragioni, questo processo di verifica è assolutamente insoddisfacente, con i brillanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti ovvero il proliferare in letteratura di teoremi falsi, ai quali altri autori si poggiano poi per produrre a loro volta altri teoremi falsi, fino a che l’errore non viene individuato e smascherato. Certo, il valore della matematica va ben oltre la pura formalizzazione di certi asserti, e la loro verifica, ed i livelli di rigore che vengono adottati nel discriminare il vero dal falso sono a loro volta dei prodotti storici che cambiano nel tempo, ma io penso che il concetto di verità (pur entro il contesto apparentemente ristretto di un dato sistema assiomatico) non sia barattabile, né che da esso si possa prescindere nello sviluppo futuro della nostra scienza.
[Intervista raccolta da Maya Briani]