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Matheon. Campus Charlottenburg, Straße des 17. Juni 136, Berlino. Arrivo al Matheon venerdì 20 marzo. È pomeriggio pieno e non capisco bene cosa ci faccia un orso azzurro, di quelli che si trovano in giro per le strade di Berlino, davanti a una struttura acquattata, rossa e anche un poco azzurra, di vetro e cemento. Il Matheon non sembra un istituto di matematica e nemmeno non lo sembra.

 

Condivide qualcosa con gli anni Settanta, poi con la messa in sicurezza dei luoghi pubblici, poi ancora con un posto che così schiacciato com’è rispetto ai palazzi alle spalle sembra un circo, sembra invitare le persone a vedere cosa c’è all’interno. E io infatti entro. Sono le quattro del pomeriggio, gruppi di studenti stanno assiepati nei corridoi, qualcuno si affanna sulle fotocopie, qualche altro si affaccia alla porta del bar che sembra una biblioteca o un teatro anatomico. La luce è calda, ocra e su due sedie retrattili tra una bacheca in sughero e un’altra stanno due studenti che parlano fitto, si interrompono, annotano qualcosa su un blocco e poi riprendono a parlare. Mi sembra che stiano studiando, che tutti gli studenti del mondo ripetano gli stessi gesti, con gli stessi tempi e le medesime titubanze. Uno dei due potrei essere io, anni fa, in un altro dipartimento di matematica e anche in un altro stato. Per questo mi avvicino, tiro giù la seggiola di legno chiaro e allungo l’occhio sul blocco bianco. Diversi dipartimenti, diversi stati, ma stesso integrale. Mi sento un po’ a casa, sorrido e i due ragazzi mi guardano unisoni e un po’stupiti. Così mi presento, dico loro che sono italiana, che volevo vedere come era fatto il Matheon e capire quale e quanta matematica circolasse per i corridoi. Loro mi guardano un po’ stupiti e se non mi fossi affrettata a dire che anche io ho studiato matematica e che ho fatto pure un dottorato di ricerca forse avrebbero pensato a una specie di folle che gira per la Technische Universität buttando gli occhi sugli appunti degli altri. È l’integrale di una funzione fratta in seno e coseno e io lo farei per sostituzione, ma non è più il mio integrale quindi tossisco un attimo, come nelle migliori esperienze cinematografiche di gente che si insinua nelle conversazioni degli altri, e poi chiedo come si chiamano e cosa studiano. Klaus parla un inglese molto gutturale, si è iscritto quest’anno a un corso che corrisponde, grossomodo,  alla nostra ingegneria informatica, il suo dipartimento è ad Ernst-Reuter Platz ma viene qui per studiare con Tina. Tina ha gli occhi chiari, è iscritta alla facoltà di Matematica e i suoi studi sono orientati in un campo che qui al Matheon va forte ed è etichettato come Visualization. Il campo di studio di Tina è lo sviluppo di algoritmi efficienti e stabili per l’analisi di vasti campioni di dati. Non solo per la computer grafica, ma anche per le industrie meccaniche e cinematografiche e pure per la medicina, per le simulazioni di operazioni chirurgiche. Tina mi sorride e dice che non si stupisce delle mie domande, che ogni settimana spunta qualche curioso, ex studente, o professore di matematica che si aggira per le aule e per le biblioteche col naso all’insù come se la matematica fosse nell’aria piuttosto che sui testi, o nei corsi. Poi mi sorride ancora e dice che in realtà al Matheon la matematica è ancora un po’ nell’aria, che il loro motto è La matematica è il futuro che i progetti più grossi sui quali i ricercatori del Matheon lavorano stanno davvero nell’aria che respiriamo tutti. Traffic Network, Production, Circuit simulation, Life Science, Visualization, Finance. Che il matheon ha anche un settore di ricerca dedicato all’insegnamento della matematica nelle scuole secondarie e nell’università. Che, come recita l’opuscolo del Matheon [scaricabile dal sito www.matheon.de] l’universo senza la matematica rimarrebbe un mistero. Io trovo misterioso che due studenti qualunque si fermino a parlare con un curioso qualunque delle finalità del Matheon, che conoscano le possibilità di questa struttura che raggruppa i dipartimenti di tre università berlinesi e molti finanziamenti pubblici e privati per sviluppare una matematica che non solo sappia descrivere il mondo e le tecnologie circostanti, ma che sappia pure dipanare, scomporre, analizzare la complessità dei problemi che ci stanno intorno. A un certo punto, mentre Tina mi spiega che visto il tema della mia ricerca dovrei parlare con un suo professore, un ricercatore che analizza le relazioni tra gli oggetti tridimensionali e la loro rappresentazione al computer, dovrei parlargli per capire davvero quanto questo problema che pure passa per matrici di dati impressionanti (e qui Tina allarga le braccia come avrei fatto io, ad un’altra latitudine e forse anche in un’altra circostanza) abbia a che fare con l’uomo, riguardi l’uomo e la sua idea di rappresentazione del mondo. Più i computer sono potenti dice Tina più sono una approssimazione del funzionamento del nostro cervello. È un problema da umanista non credi? Io lo credo e credo pure che le mie somiglianze tra lo studente che è Tina, o quello che è Klaus, e lo studente che io ero, si ferma, almeno come tipologia del corso di studi, a quell’integrale fratto, di funzioni goniometriche. Tina pensa alla matematica che potrebbe essere. Una matematica potenziale e che pure passa per centri di eccellenza in analisi numerica o modellizzazione stocastica. Tina e gli studenti del Matheon. Vede le finalità di una disciplina che comunque rimane astratta nei metodi ma tangibile nelle applicazioni. Quello che accade, parlando con gli studenti tutti disponibili, tutti entusiasti del Matheon. Quello che accade mentre si calpestano le incredibili mattonelle di legno del pavimento del Matheon. È che la soluzione per far entrare la matematica nell’orizzonte culturale che ci sta intorno sono le applicazioni, partire da quello che serve per arrivare a quello che suscita. Dalle matrici di dati per i giochi al computer o per le simulazioni anatomiche per la chirurgia, fino all’uomo. Questo è quello che mi è sembrato oggi il Matheon. Saluto Tina, saluto Klaus e dico che quell’integrale io lo farei per sostituzione.

Di Chiara Valerio

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