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Una mini-serie a cura di Marco Trombetti, in cui si esploreranno la tumultuosa storia e le incredibili vette raggiunte dalla matematica delle simmetrie: la teoria dei gruppi. In questo settimo episodio scopriamo la bellezza dell’infinito in teoria dei gruppi.

 

Il giovane lettore molto probabilmente conosce già il significato della parola “filler” in ambito televisivo. Sono gli episodi che non aggiungono nulla alla trama generale di una serie televisiva o di un anime, ma sono solo “riempitivi”. Sono episodi che spesso vengono saltati, e che sono spesso osteggiati se in percentuale troppo elevata. Ho deciso di usare il termine “filler” per questo episodio perché la conoscenza di base della (storia della) teoria dei gruppi che volevo il lettore avesse è essenzialmente racchiusa negli altri episodi, sicché questo non vi aggiunge granché, e può essere tranquillamente saltato.

In questa puntata vorrei parlarvi un po’ della situazione attuale della ricerca di base, dal punto di vista di un matematico puro ed in particolare di uno che studia maggiormente gruppi infiniti. Mi piacerebbe che anche personalità più rivolte alle applicazioni possano capire lo spirito di quello che andrò a scrivere (ed è anche per questo che lo metto nero su bianco), ma ciò non toglie che qualora quest’ultime non apprezzassero, possano tranquillamente cambiare canale. Insomma, gli altri episodi sono stati per voi, questo è per me.

Cominciamo.

Dall’alba dei tempi la ricerca matematica ha sempre viaggiato lungo due binari distinti, che si sono spesso incrociati dando luogo a meravigliosi “incidenti”. Da un lato abbiamo la matematica creata al fine di risolvere problemi pratici; tale, ad esempio, è il calcolo dei vari perimetri, aree e volumi di figure (spesso troppo perfette per il mondo reale) ma comunque abbastanza reali; e tale matematica può dar luogo a formule meravigliose, soprattutto se la modellizzazione del problema concreto risulta molto più perfetta del problema stesso.

Dall’altro abbiamo una matematica che risulta più assimilabile a fare dell’arte, una matematica fatta per il solo fine della matematica stessa, per classificare, catalogare, collezionare (avrebbe detto qualcuno…) oggetti matematici, e per portare alle estreme conseguenze gli assiomi della teoria.

Certo però c’è uno svantaggio in più rispetto all’arte (nel suo comune essere intesa). Infatti, la forza espressiva dell’arte è fruibile essenzialmente da chiunque, non richiede una particolare preparazione o particolari conoscenze (per quanto qualche volta magari richieda una certa inclinazione d’animo). La matematica intesa come forma d’arte invece sì, richiede conoscenza pregressa e capacità di astrazione, e persino tra matematici, teoremi di particolare rilievo per un settore possono non essere percepiti per quello che realmente valgono da matematici in altro ambito.

Il progredire della matematica stessa ha fatto sì che per poter raggiungere risultati eccellenti sia spesso necessario settorializzarsi sempre di più, cosicché nonostante le nozioni di base risultino le stesse per tutti i matematici, le contaminazioni tra settori diventano sempre più difficili in ambito di ricerca (perché diventa più difficile capirsi), ed è per questo che quando tali contaminazioni ci sono, vengono valutate molto positivamente. Dunque, questo secondo binario che sto descrivendo pone un problema: abbiamo una forma d’arte fruibile in concretezza solo da poche persone al mondo, ne vale la pena? Cercherò di persuadervi del fatto che la risposta a tale domanda sia affermativa.

 

Un primo esempio

Probabilmente una risposta migliore di tutte quelle che potrei darvi io è contenuta nel libro ‘‘Apologia di un matematico’’ di G.H. Hardy del 1940, al cui titolo (oltre che a Toy Story) mi sono ispirato.

Godfrey Harold Hardy (1877 – 1947)

Hardy fu colui che portò alla ribalta Ramanujan, e fu molto noto per i suoi contributi in teoria dei numeri. Nella fattispecie, Hardy considerava la teoria dei numeri (cioè quello che studiava) ‘‘inutile’’. Per lui questo aggettivo non era però dispregiativo, anzi voleva evidenziare con ciò la perfezione di tale materia, il fatto che non fosse corrotta dalla ‘‘mediocrità’’ del mondo reale. In qualche senso quindi Hardy considerava la teoria dei numeri arte.

Sebbene andasse molto fiero dell’inutilità della teoria dei numeri, il futuro lo contraddirà. Difatti, la teoria dei numeri è ad oggi uno dei capisaldi della moderna crittografia, e molti dei risultati ottenuti allora sono oggi importantissimi in senso pratico.

 

Un altro esempio

La geometria non-euclidea è un altro esempio di questo fenomeno, i cui semi si trovano già nei lavori di Gauss nel 1813, e che fu sviluppata solo anni dopo grazie a Lobachevsky, Bolyai e Riemann. Ma solo a partire dai primi anni del 1900 si cominciò a capire l’importanza pratica di tali geometrie, con l’avvento della cosmologia e della relatività. Quindi perché tali maestri iniziarono lo studio di tali geometrie se non per un ‘‘semplice’’ motivo estetico?

 

Queste sono solo due di tantissime circostanze in cui aver studiato qualcosa per il gusto di farlo è andato a favore delle applicazioni, altri esempi possono esserci dati dati dalla teoria dei grafi (pensate a come vengono indicizzate le pagine nei motori di ricerca), dalla teoria dei gruppi (vedi il secondo episodio) e dalla logica matematica (indispensabile in informatica).

 

Voglio però ora soffermarmi su un altro motivo per cui sia importante sfidare i limiti della conoscenza a prescindere dalle applicazioni.

La crisi dei fondamenti della matematica

La matematica, si sa, dovrebbe essere basate su certezze. Eppure tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 tutte le certezze della matematica sembrarono vacillare.

Tra il 1874 e il 1884, Georg Cantor dà origine alla teoria degli insiemi (teoria su cui oggi si basa l’intero sistema matematico). Cantor fu il primo a capire quale fosse il modo giusto di confrontare la grandezza di insiemi infiniti (mediante le funzioni iniettive e biettive), e a scoprire che vi sono dunque infiniti più grandi di altri. Ad esempio, l’infinito corrispondente all’insieme dei numeri naturali è lo stesso di quello dei numeri interi e razionali, ma è strettamente più piccolo dell’infinito corrispondente a quello dei numeri reali. Insomma, i numeri razionali non potranno mai ricoprire in nessun modo la retta reale.

In realtà Cantor dimostrò molto di più. Dimostrò che preso un qualunque insieme (infinito), esiste sempre un insieme infinito più grande. Quindi non c’è limite alla gerarchia di insiemi infiniti che si può creare. E la cosa più sorprendente è che la dimostrazione di tale risultato è facilissima, sembra quasi un imbroglio! Cantor costruì una aritmetica degli infiniti, gli infiniti divennero così dei ‘‘veri e propri’’ numeri. E anzi, Cantor si spinse oltre dimostrando che i concetti di numero cardinale e ordinale, che nel finito coincidono, nell’infinito sono ben distinti: nascono così i numeri ordinali e cardinali.

Piccola nota a margine. Cantor usò la lettera ebraica \(\aleph\) per denotare questi numeri cardinali. Quindi in matematica l’aleph è assimilabile al concetto di infinito. In origine, la forma della lettera aleph assomigliava alla testa di bue stilizzata, e aleph significava proprio ‘‘bue’’. Successivamente le corna del bue sono diventate le stanghette della lettera. Avete visto da qualche parte tale testa di bue?

Non a caso, le idee estremamente innovative di Cantor furono giudicate anche da grandi matematici quali Kronecker come ‘‘prive di senso’’. In qualche senso, non si trovava un fondamento di queste idee nella realtà. A causa di questo, Cantor finirà in un ospedale psichiatrico dove morirà nel 1918.

Ad ogni modo, il dono più grande fatto da Cantor alla matematica fu la teoria degli insiemi tutta e il fatto che la matematica per poter essere concretamente formalizzata dovesse basarsi su di essa. Dopotutto vi ripeto, in matematica c’è bisogno di certezze assolute.

Nel 1902 arriva però Bertrand Russell che portò alle estreme conseguenze la teoria degli insiemi chiedendosi: l’insieme \(K\) di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi appartiene o no a sé stesso?

Pensateci, se \(K\) appartiene a \(K\), allora per sua stessa definizione, \(K\) non deve appartenere a \(K\). Mentre se \(K\) non appartiene a \(K\), per definizione dovrà appartenere a \(K\). Sembra proprio un paradosso! Il paradosso di Russell. Questo paradosso e altri simili scossero in maniera sostanziale le fondamenta della matematica. Cos’era vero e cos’era falso? Se c’era un problema di questo tipo nella logica matematica, come fare a sapere quale dimostrazione fosse giusta e quale errata?

Bertrand Russell (1872 – 1970)

La cosa si risolse qualche tempo dopo ammettendo che potessero esserci oggetti che insiemi non sono. Entrò in gioco la teoria assiomatica degli insiemi. E questa portò a risultati incredibili. Non molto tempo dopo ad esempio Gödel enunciò i suoi famosissimi teoremi di incompletezza della matematica, e questi scossero il mondo matematico come nient’altro.

Kurt Gödel (1906 – 1978)

La matematica non era più certezze. Gödel dimostrò che comunque uno avesse voluto formalizzare la matematica sarebbe stato impossibile provarne la coerenza, cioè sarebbe stato impossibile provare che la teoria matematica fosse coerente. Dimostrò inoltre che allo stesso modo ci sarebbero sempre state delle formule indecidibili, degli enunciati la cui verità o falsità non poteva essere provata. Tra questi spiccano l’assioma della scelta e l’ipotesi del continuo.

Gödel è come se ci dicesse: ‘‘continuate a fare matematica con il sistema assiomatico che vi siete scelti, un giorno, fate attenzione che potreste trovarvi una contraddizione, e dovrete cambiarlo’’. Questo è uno dei motivi per cui è importante cercare di portare alle estreme conseguenze le teorie matematiche.

 

Il motivo migliore

Perché è bello e mi piace, quanti altri motivi servono? È mai possibile che dobbiamo giustificare lo studio? Cosa sarebbe successo se avessero chiesto a Dante a cosa gli servisse scrivere la Commedia? O a Leonardo da Vinci perché stesse dipingendo la Gioconda? Avremmo perso dei capolavori inestimabili. La matematica pura è arte, difficile, ma arte. Perché vogliamo perdere capolavori?

Quando si ha a che fare con l’infinito neanche le più moderne intelligenze artificiali riescono a venirne a capo. Probabilmente la matematica dell’infinito sarà una delle poche scienze a sopravvivere all’avvento dell’intelligenza artificiale. Perché vogliamo noi essere umani sbarazzarcene prima? Cosa ci distinguerà dalle macchine? Il lavoro fisico? È tutto qui? Io non lo credo, e spero in cuor mio di no.

La teoria dei gruppi, per mia fortuna, viaggia sia sui binari del finito e delle applicazioni, ma anche su i binari dell’infinito, della purezza, dell’arte. Quanti altri possono dire di avere un compagno migliore in questa vita?

 

 

Marco Trombetti

Professore Associato di Algebra presso il Dipartimento di Matematica e Applicazioni “Renato Caccioppoli” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. È vicepresidente dell’associazione no-profit “AGTA – Advances in Group Theory and Applications” ed Editor-in-Chief della rivista “Advances in Group Theory and Applications”. Il 30 gennaio 2020, ha ricevuto (ex aequo con E. Giannelli) il Premio Nazionale “Mario Curzio” per il miglior giovane ricercatore in algebra (non professore), assegnato dall’Accademia Pontaniana.

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