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Annalisa Murgia, professoressa associata  di sociologia generale all’Università degli Studi di Milano,  ci regala  la sua riflessione sulle conseguenze del lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19 sulle diseguaglianze di genere.

È quasi banale dirlo, ma l’emergenza sanitaria non ha certo gli stessi effetti su tutta la popolazione. Le diseguaglianze sono enormi in termini di classe sociale, genere, età, luogo in cui si abita, accesso alla sanità, avere o non avere un reddito, lavorare a casa o fuori casa, con le adeguate protezioni o senza protezione alcuna. E potremmo continuare lungo le molteplici diseguaglianze che caratterizzano le nostre società. Tutte diseguaglianze presenti ben prima dell’inizio del lockdown, che sono ora più visibili e accentuate, ma certamente non causate dalla pandemia di Covid-19.

Da mesi chiunque si occupi di diseguaglianze di genere, dai collettivi femministi ai centri antiviolenza, fino alle istituzioni nazionali e alle Nazioni Unite, esprime preoccupazione per le più pesanti conseguenze che l’emergenza sanitaria ha sulle donne. In particolare, l’Italia ha da sempre uno dei più bassi tassi di occupazione femminile, che tuttora non supera il 50%, così come resta altissimo il gap occupazionale tra donne e uomini.

L’Italia è inoltre un paese in cui una larga fetta di welfare è delegata al lavoro non retribuito (e non riconosciuto) delle donne. L’ultima indagine Istat sull’uso del tempo mostra che il lavoro domestico e di cura non retribuito continua a occupare oltre il 20% della giornata media delle donne (oltre 5 ore, conto 1h50 circa degli uomini). La pandemia rischia di peggiorare ulteriormente questa situazione, dal momento che a una asimmetria consolidata per quanto riguarda il lavoro sia retribuito che non retribuito (domestico e di cura) si aggiunge la chiusura delle scuole e la difficoltà di delegare esternamente il lavoro familiare, sia per le risorse scarse che per il rischio di contagio.

Se vogliamo analizzare gli effetti della pandemia sulle donne che lavorano in università, e più in generale nel mondo della ricerca, credo che qualsiasi ragionamento debba tenere conto di questo quadro. Va peraltro sottolineato che l’Italia rappresenta il fanalino di coda in Europa, ma in tutti i paesi persistono asimmetrie di genere, sia nei tassi di occupazione che nella distribuzione del lavoro domestico e di cura. Nell’ultima settimana sono rimbalzate in moltissimi network di ricerca, sia nelle discipline scientifiche che in quelle socio-umanistiche, le preoccupazioni di alcuni editor di riviste internazionali sul verticale crollo di articoli inviati da ricercatrici, soprattutto se a firma singola. Crollo che non ha riguardato i colleghi uomini, i cui articoli – all’epoca dello smart working forzato – sembrano essere persino aumentati. Non si fa fatica, alla luce del quadro sopra descritto, a immaginare le ricercatrici sopraffatte dai carichi familiari, soprattutto se con figli/e piccoli/e e/o altri carichi di cura.

Credo, tuttavia, che per indagare le diseguaglianze di genere in accademia, non si debba concentrare l’attenzione solo su quanto accade all’esterno – welfare insufficiente, asimmetrie nella distribuzione del lavoro non retribuito, segregazione verticale, maggiore permanenza in posizioni instabili, ecc. – ma anche in quanto accade all’interno del sistema accademico. Alle donne viene infatti richiesto di caricare sulle proprie spalle il lavoro di cura e affettivo non solo nelle loro famiglie e reti di relazioni, ma anche nei dipartimenti in cui lavorano, attraverso tutte quelle attività di servizio meglio note come ‘academic housework’ (Steinþórsdóttir et al. 2018). Sono molte le ricerche che mostrano i maggiori carichi amministrativi e di insegnamento, così come il fatto che le donne occupino più spesso ruoli di supporto a colleghi, collaboratori e studenti. Tutte attività che non ci si aspetta allo stesso modo dai colleghi uomini e che non vengono riconosciute, né possono essere facilmente misurate, ma che incidono negativamente sulle carriere delle donne.

E anche in questo momento, oltre al sovraccarico di cura all’interno delle proprie famiglie, sarebbe interessante aprire una riflessione sulle attività accademiche svolte da uomini e donne. Al tempo della didattica, degli esami e del ricevimento studenti online, la preoccupazione è che le asimmetrie di genere stiano diventando ancora più marcate. L’università, infatti, è fatta di ricerca e pubblicazioni, ma anche di didattica, supervisione di tesi, ascolto e supporto di studenti, così come di attività organizzative e di coordinamento, nonostante queste vengano raramente tenute in considerazione.

Quando il lockdown sarà finito, dovremmo quindi evitare che gli avanzamenti di carriera, così come le valutazioni in sede di concorso o per ottenere un grant, facciano finta che tutti i ricercatori e le ricercatrici abbiano trascorso questi mesi in condizioni simili. Soprattutto le ricercatrici precarie rischiano di vedere ulteriormente ridotte le già scarse possibilità di ottenere una tenure o una posizione permanente.

Tuttavia, il punto non è soltanto la gestione del post-Covid19, ma la messa in discussione di quell’ideale di ‘eroica’ e completa devozione alla scienza intorno a cui sono costruiti gli attuali sistemi di valutazione. In questo senso non posso che essere d’accordo con la conclusione del pezzo pubblicato su Nature a commento della difficoltà di scrittura delle ricercatrici durante la pandemia. La soluzione alle asimmetrie di genere non può che essere un investimento strutturale e a lungo termine sulla parità di genere all’interno dell’università. Detto altrimenti, per quanto riguarda le diseguaglianze di genere, occorrerà affrontare i problemi scaturiti dagli eventi esterni all’accademia, ma sarebbe auspicabile che si affrontassero anche quelli interni.

Annalisa Murgia

 

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