Il 24 settembre scorso la Riemann International School of Mathematics ha consegnato il Riemann Prize a Terence Tao. In questa occasione, Roberta Fulci di Radio3 Scienza ha intervistato Tao, e buona parte dell’intervista è stata trasmessa in due diverse puntate della trasmissione: Il Tao della matematica e Numeri in gara. Di seguito riportiamo la trascrizione integrale dell’intervista tradotta in italiano per gentile concessione di Roberta Fulci e Radio3 Scienza.
Roberta Fulci: Come procede questa settimana di celebrazioni, tra Varese e Milano, per il Riemann Prize che le è stato conferito?
Terence Tao: Finora è stata un’esperienza unica. Questa settimana è stata un mix interessante di matematica e arte. C’è stata tanta musica, mostre d’arte, stamattina ho anche ricevuto in dono un’opera d’arte! Un’ospitalità fantastica.
RF: So che ha visitato una scuola superiore, il liceo scientifico Galileo Ferraris di Varese. Che cosa ha raccontato agli studenti e come hanno reagito?
TT: Ho parlato loro di alcuni problemi matematici aperti. Sfortunatamente, per via del distanziamento fisico, non potevano stare tutti nella stessa aula… Molti erano in altre aule e non ho potuto parlare direttamente con loro, però alcuni sono venuti dopo a cercarmi, abbiamo chiacchierato, erano così entusiasti!
RF: C’è questo libro, Risolvere problemi matematici. Il mio punto di vista, tradotto in italiano l’anno scorso da Scienza Express. La prima edizione del libro uscì quando lei aveva all’incirca l’età dei ragazzi che ha incontrato ieri – anche se all’epoca lei era già all’università. Racconta sempre che a scuola non amava le ore di inglese. Eppure andando a leggere questo libro, che scrisse ad appena quindici anni, si vede che non solo è scritto molto bene, ma ci sono anche citazioni letterarie. Non è vero che non le piaceva scrivere!
TT: Be’, in realtà l’ho un po’ riscritto a trent’anni. L’ho revisionato quindici anni dopo averlo scritto, e quando ho visto come scrivevo… che imbarazzo! Allora avevo una specie di grande dizionario di citazioni, mi ricordo che sfogliavo questa enciclopedia delle citazioni per trovarne di adatte. Credo che il punto sia: quando devo scrivere qualcosa che io voglio scrivere, lo so fare. Mentre quando la mia insegnante di inglese mi chiedeva di scrivere qualcosa che voleva lei, non capivo mai che cosa esattamente volesse. Era questo che mi creava problemi.
RF: Nel libro scrive che i giochi matematici sono per la matematica un po’ quello che le favole sono per la vita reale. Che significa?
TT: (Ride) Sì, mi ricordo! È che quei problemi sono molto artefatti. Nelle gare di matematica i problemi sono pensati in modo tale che, lavorandoci per un’ora o due, il problema sia risolto. La soluzione è sempre molto bella e pulita, un po’ come quando guardiamo in TV l’episodio di una serie: la storia è fatta ad arte. C’è tutta un’azione e in mezz’ora-un’ora il problema si scioglie. Nel mondo reale non è così! Ci possono volere mesi, anni, e a volte il problema iniziale non si risolve affatto. Magari se ne risolve un altro. Per cui è diverso, però questi problemi divertenti e “finti” sono una buona palestra prima di cimentarsi sui problemi della vita reale, perché quelli sono troppo complicati.
RF: Quel che mi ha colpito del suo libro è che è molto colloquiale. Un aspetto che aiuta moltissimo la comprensione. Mentre invece normalmente chi scrive di matematica in senso accademico, professionale, si attiene a una scrittura molto molto asettica: perché?
TT: Quando diventi matematico di professione, i colleghi ti dicono… be’, quando io scrissi il mio primo articolo, il mio relatore mi disse: “non stare a metterci battute. Attieniti a proposizioni oggettive, perché quel che oggi ti sembra divertente, tra 10, 20 anni, magari non ti sembrerà più divertente, ma l’articolo sarà ancora lì, e tu potrai trovarti in imbarazzo per quel che avevi scritto”. Quando inizi sei molto prudente: è molto difficile farsi delle opinioni, perché ci sono sempre matematici più anziani ed esperti di te che potrebbero pensarla diversamente, e tu non vuoi contraddirli. Ci vuole un po’ per imparare a rilassarsi ed essere se stessi. Io a 15 anni non avevo idea di tutto ciò, ed è per questo scrissi tutto quello che pensavo!
RF: Alessio Figalli, matematico italiano che ha ricevuto la medaglia Fields nel 2018, ha raccontato a Radio3Scienza di come per lui le Olimpiadi della matematica siano state una svolta decisiva, perché è stato proprio partecipando a quelle gare che si è reso conto di quanto amasse la matematica. È stato decisivo anche per lei?
TT: Sicuramente le gare mi divertivano tanto. E sicuramente questo ha contribuito quando io e i miei genitori decidemmo insieme che cosa avrei studiato: io dissi subito “matematica!” e credo fosse soprattutto perché mi erano piaciute così tanto le gare. Ma ci sono tanti ottimi matematici che quelle gare non le hanno fatte mai. Per farle volentieri devi avere un’indole competitiva, devi vedere la matematica un po’ come uno sport. Certi matematici non la pensano affatto così: amano la matematica in quanto tale. Perciò a me fa molto piacere che le gare esistano, per me sono state un’ottima cosa, ma mi fa anche piacere che non siano obbligatorie per diventare un matematico.
RF: C’è una differenza tra le capacità che servono in una gara come le Olimpiadi della matematica e quelle che servono per fare ricerca?
TT: L’analogia che mi piace fare è che le gare sono come uno sprint, mentre la ricerca è come una maratona. Le qualità necessarie sono diverse. Capita anche che certe persone che sono bravissime nelle gare quando arrivano all’università fanno fatica a fare ricerca, perché sono abituati a problemi che si risolvono in un’ora o due. Lì invece si trovano a lavorare su uno stesso problema per mesi e mesi, e non risolverlo subito provoca loro una grande frustrazione. Mentre chi non ha quell’esperienza e non ha mai fatto gare a volte ha più resistenza, e alla fine rende meglio.
RF: Anni fa in un post del suo blog, che fu anche tradotto in italiano su MaddMaths! ed ebbe molto successo, scriveva che la matematica ha a che fare, più che col genio e l’ispirazione, con la pazienza, la maturità e la conoscenza. Lo pensa ancora?
TT: Ah sì, ne sono convinto. Un’altra analogia: mi piacciono le analogie! A molti matematici piace arrampicare. Arrampicare ha molto in comune con il risolvere un problema matematico. Si potrebbe pensare che per arrampicare devi essere forte, in salute, veloce e così via. Tutto questo, certo, aiuta, ma in verità a fare la differenza sono pazienza, allenamento ed esperienza. Se la parete è liscia e non ci sono prese, non importa quanto sei forte. Non puoi saltare. Se hai davanti una parete di 6 metri, di 10 metri, non importa se sei un genio dell’arrampicata: non puoi scalare quella parete. Se non sei un esperto di arrampicata e vedi invece uno esperto che trova tutte le prese giuste, ti può sembrare che abbia un qualche superpotere, ma in realtà è solo esperienza: sa che cosa fare.
Quando ero laureando incontravo il mio relatore tutte le settimane. Lavoravo alla mia tesi, magari avevo trascorso ore e ore su un problema, provando varie strade, e tutto quel che avevo tentato non aveva funzionato. Andavo dal mio relatore e gli dicevo “Ho provato questo e non ha funzionato; ho provato quest’altro e non ha funzionato”. Lui guardava la lavagna, dava una scorsa a quel che avevo scritto, pensava per 5 minuti, e poi diceva “il problema che hai mi ricorda un problema che quest’altro matematico aveva mentre lavorava a quest’altro problema”. Andava a scartabellare nel suo archivio, tirava fuori un articolo e mi diceva “leggi questo. Qui c’era un problema simile e l’hanno risolto”. Io mi andavo a leggere l’articolo ed effettivamente c’era un problema simile al mio, e spesso riuscivo a usare quella soluzione per risolvere il mio problema. Insomma, a lui bastava pensare per un paio di minuti, e questo era molto più utile di un’intera settimana di miei tentativi, perché lui aveva esperienza. È questo che fa la differenza.
RF: Quasi ogni intervista su di lei inizia con gli aneddoti di quando era piccolo, a due anni insegnava ai bambini più grandi a contare oppure a cinque disegnava i numeri sui vetri delle finestre. Non le sembra che questa narrazione vada nella direzione di una matematica riservata ai ragazzi prodigio?
TT: Be’, quella è la mia storia. Non è che me ne posso inventare una diversa! Per me è andata così. Ma io non sono l’unico matematico in circolazione. Ce ne sono tantissimi che si sono interessati alla matematica molto tardi, e hanno avuto un grande successo. Non tutti hanno partecipato alle gare. Una cosa che adoro della matematica è che ci sono molti, moltissimi modi diversi di pensare alla stessa cosa. Alcuni matematici sono molto visivi, c’è chi ama lavorare in gruppo e chi da solo, chi usa molto i computer… io ho il mio modo di fare matematica ma sarebbe molto triste se tutti facessero matematica come me. A me piace moltissimo parlare con altri matematici che hanno un modo di pensare la matematica, o la realtà, diverso dal mio. Perciò sì, io ho la mia storia, ma non sono l’unico matematico che il pubblico dovrebbe conoscere.
RF: Come esce secondo lei la matematica da quasi due anni di pandemia? Ha guadagnato in termini di rispetto e fiducia da parte del pubblico?
TT: Così così. Avevamo tutti i nostri modelli per descrivere l’andamento della pandemia, e funzionavano bene. Quel che ha funzionato meno è stato riuscire a comunicare che c’erano tante variabili di cui non conoscevamo il valore. Quanto è contagiosa la malattia? Quante persone sono disposte a portare la mascherina? E così via. Man mano che la pandemia procedeva, questi numeri hanno iniziato a cambiare e avevamo dati sempre più accurati. Ma per questo motivo alcune delle previsioni iniziali sembravano non funzionare granché, rispetto a quel che si è verificato dopo. Tutto questo ha generato un po’ di confusione, e secondo me non siamo stati molto bravi a spiegare come funziona un modello. Non è una previsione infallibile, è solida quanto lo sono le assunzioni e i dati da cui parti. E poi a un certo punto è diventato un tema politico, e una volta che diventa politico, non c’è matematica che tenga!
RF: Che cosa, invece, ha funzionato?
TT: Alcuni hanno fatto, in effetti, un buon lavoro di comunicazione. Per esempio, nei primissimi tempi, quel concetto di appiattire la curva per far sì che gli ospedali non fossero sovraffollati. Su questo c’era qualche buona spiegazione, e ottime spiegazioni sulla crescita esponenziale: perché era così importante fermare il contagio molto presto, anche quando non c’erano ancora tanti casi, perché è molto molto più difficile fermarli quando sono fuori controllo, come purtroppo oggi sappiamo. Però ecco, sicuramente la comunità di noi matematici potrebbe fare uno sforzo in più a spiegarsi. A volte ci piace parlare tra di noi!
RF: Lei ama molto condividere il suo lavoro e collaborare con altri matematici. Un paio di anni fa Gigliola Staffilani, con cui lei ha lavorato, matematica italiana che vive e lavora da tempo negli USA e ha fatto una meravigliosa carriera, ha detto a Radio3Scienza che su alcuni modi in cui la matematica si sta trasformando è un po’ perplessa: quando si mette tutto online, come si fa a sapere chi è autore di cosa? E poi: se metti un problema su internet non puoi più assegnarlo come tesi, perché magari qualcun altro lo vede e lo risolve, e il tuo tesista poi che fa? Ecco. Lei come risolve tutto questo?
TT: Credo che la matematica stia diventando più aperta. Prima si era più gelosi: c’era chi non diceva a nessuno cosa stesse facendo, magari per paura che qualcuno gli rubasse l’idea. Ma ora c’è più consapevolezza che bisogna collaborare, e va anche bene che vari gruppi di ricerca lavorino sullo stesso problema. Anche se due gruppi risolvono un problema nello stesso momento, avranno comunque due prospettive diverse. C’era una certa competizione, una certa rivalità, alla fine siamo umani anche noi! A volte si diventa un po’ cattivi. Ma le nuove generazioni sono più aperte e di solito hanno un atteggiamento sano.
RF: Un suo studente una volta ha detto che non faranno mai un film su di lei perché è troppo normale per essere un matematico! Non ha una vita abbastanza travagliata. Niente film come quelli su Nash o su Turing. Le dispiace?
TT: (Ride a crepapelle) Sono a posto così, anche senza film… sarei troppo a disagio anche solo a guardarlo, un film su di me. Non riesco nemmeno a riascoltare la mia voce! Non guarderei mai un film che racconta la mia storia!
Intervista raccolta da Roberta Fulci
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