La poesia fa risuonare in noi immagini e ricordi. E un suono, può farci capire la forma della membrana che lo ha prodotto?
Le parole non vengono mai da sole. Penso “tamburo” e mi viene dietro un verso di De Andrè che in questi giorni vedo spesso richiamato. Forse è stato sempre così con la poesia, ma per la mia generazione, che era adolescente negli anni ’70, i poeti sono stati i cantautori, e l’ermo colle e il melograno sono stati (parzialmente) sostituiti da versi come “buttarsi in un cinema con una pietra al collo” o “stoviglie color nostalgia”, che non riusciamo più a non associare a certe parole. E i versi, a loro volta, fanno risuonare in noi dei circuiti di associazioni e di memoria, richiamando altre situazioni e momenti della nostra vita, che proprio grazie queste associazioni continuano a vivere in noi (o forse l’associazione è il mezzo per farli continuare a vivere). Per esempio, a me questi due versi fanno ricordare dei pomeriggi di più di trent’anni fa ad ascoltare musica nel salone di una mia cara amica, a voi sicuramente qualche altra cosa (a meno che non ci foste anche voi, non si sa mai…). Ma l’importante è l’esistenza di questa risonanza, che non è solo abitudine, ma quasi mi sembra sia una qualità specifica del verso poetico.
Ma perché un tamburo? Ci pensavo a proposito di un problema matematico posto nel 1966 dal matematico Mark Kac in un articolo dal titolo: “Can one hear the shape of a drum?” (Si può sentire la forma di un tamburo?). Ossia, facendo risuonare una membrana elastica attaccata per i bordi ad un perimetro piano, possiamo dedurre la forma del bordo che la tiene? Certo, se il tamburo è tondo, il problema è poco interessante (e possiamo anzi calcolare esplicitamente tutti i modi normali in cui si decompone il generico suono emesso dal tamburo), ma se cominciamo a costruire dei “tamburi” di forma qualsiasi, allora diventa tutto più complicato. A ben guardare, questa storia comincia 2500 anni fa con Pitagora, il quale si accorse che se delle corde di uguale densità e sottoposte alla stessa tensione, ma di lunghezza diversa, vengono fatte suonare, producono suoni diversi. In linguaggio moderno diremmo che la frequenza fondamentale F della corda è inversamente proporzionale alla sua lunghezza L, e la formula esatta è
F=(T/D)1/2(1/2L)
dove T e D sono rispettivamente la tensione e la densità della corda. Le armoniche superiore, ossia gli altri modi con cui può vibrare una corda data, sono semplicemente dei multipli di questa frequenza fondamentale. Per cui, dal suono prodotto da una corda e da alcune delle sue armoniche successive, possiamo dedurre la sua lunghezza e il rapporto tra la sua tensione e la sua densità. Se passiamo in due dimensioni, ossia al caso di un tamburo, la questione è molto più complessa. In pratica è sempre possibile scrivere la soluzione dell’equazione della membrana vibrante come somma infinita, ma numerabile, di armoniche semplici (chiamate autofunzioni) che corrispondono a certe frequenze tipiche del tamburo (autovalori) che sono a loro volta determinate dal materiale usato, dalla tensione e soprattutto dalla forma del dominio. La domanda di Kac era quindi la seguente: se conosciamo le frequenze tipiche di un tamburo, cosa che possiamo fare ascoltando il suono che produce a diverse sollecitazioni, possiamo ricostruire la sua forma geometrica? In matematichese, dato che l’insieme delle frequenze caratteristiche di una regione formano il cosiddetto “spettro” (niente a che vedere con i fantasmi…), il problema è quello di sapere se esistono regioni isospettrali. Insomma, un problema molto bello e complesso, che unisce la modellistica matematica, l’analisi delle equazioni alle derivate parziali e la geometria.
Una formula stabilita da Hermann Weyl nel 1912 stabilisce che i modi caratteristici di una membrana prescrivono la sua area e il suo perimetro (questo risultato fu però completamente dimostrato da V. J. Ivrii nel 1980). La risposta finale (negativa: NON possiamo sentire la forma di un tamburo) a questo problema (*) fu data però solo nel 1992 da Carolyn S. Gordon, David L. Webb, e Scott Wolpert, che presentarono due forme diverse che corrispondevano alle stesse frequenze proprie (ovviamente con la stessa area e perimetro, vedi figura). Da allora sono state trovate decine di regioni di queso tipo (che si chiamano appunto isospettrali), e alcune delicate esperienze fisiche hanno confermato che queste forme risultano equivalenti anche in pratica (non solo matematicamente) all’analisi delle frequenze.
Rimane invece aperto il problema di come certe parole risuonino nelle persone che le ascoltano. Sarà possibile un giorno dedurre qualche cosa sulla forma della nostra mente da come risuona ascoltando una poesia?
Roberto Natalini
(*) In effetti Steve Zelditch ha dimostrato nel 2000 che sotto certe ipotesi di simmetria (per riflessione su due assi ortogonali), per regioni senza buchi e con frontiera analitica vale la proprietà che, se gli spettri coincidono, allora anche le regioni sono uguali. Ma le ipotesi sono un po’ tecniche e non si sa cosa succede in generale. E tutti i domini isospettrali multipli hanno questi punti angolosi. In questo senso alla fine la risposta al problema di Kac potrebbe essere anche parzialmente positiva.