Non ci vuole coraggio per affrontare uno spettro; piuttosto, il contrario. Guardiamo da fuori una forma e, con la giusta cura, riconosciamo un punto di osservazione da cui tutto diviene più semplice. Semplice come una moltiplicazione. Trasparente come un sistema di equazioni lineari, in cui ogni riga riguarda una ed una sola variabile, la cui soluzione è a portata di mano, esito di una banalissima divisione. Quando lo spettro si mostra, le paure scompaiono, mentre il terrore attanaglia colui al quale lo spettro non si manifesta.
All’origine è una questione di fisica, o meglio, di musica. Per creare uno spettro, basta anche una sola corda, tesa come quella di un violino. Le sue oscillazioni possono essere diverse tra loro, ma tutte si riconducono ad una famiglia di oscillazioni elementari: le armoniche. Ciascuna delle armoniche è distinta da una forma tipica e da un valore specifico. E la collezione di questi valori, corrispondente all’insieme dei suoni possibili, è lo spettro della corda. Una qualsiasi maniera di agitarsi e vibrare può essere decomposta nella somma di armoniche, ciascuna sollecitata con una intensità opportuna, proprio come un punto nello spazio è individuato dalle sue tre coordinate, ognuna delle quali individua la distanza in una direzione opportuna. Conoscere lo spettro della corda, vuol dire conoscerne tutte le dinamiche potenziali, anche quelle che nessun compositore ha ancora composto.
Passando da corde a membrane, la dimensione aumenta, il concetto resta lo stesso. La forma di una data armonica può divenire più complessa, per via della geometria arricchita. Ma lo spettro, cioè la collezione delle frequenze di vibrazione, resta comunque una collezione di numeri che descrivono i suoni possibili del tamburo di turno. In questo senso, domanda Marc Kac negli anni Cinquanta se sia possibile sentire la forma di un tamburo, cioè se lo spettro delle vibrazioni possibili determini in maniera univoca la forma geometrica dell’oggetto vibrante. Un certo sconforto nello scoprire che la risposta è negativa. Poco grave, come l’abito non fa il monaco, anche lo spettro non fa la membrana.
O, come dicono i matematici: esistono domini isospettrali, ma non congruenti.
A partire da questa origine tangibile (e udibile), lo spettro, forse per questa sua fantasmagorica natura, ha invaso miriadi di interstizi dello scibile matematico. Con un accordo di vocabolario pressoché comune: gli elementi dello spettro sono gli autovalori, le corrispondenti forme gli autovettori. Ogni trasformazione lineare del piano ha un suo spettro, composto rigorosamente da due numeri, reali o complessi che siano. Gli autovettori individuano direzioni invarianti, rette trasformate in sé stesse. Per una trasformazione lineare dello spazio, occorrono tre autovalori per fare uno spettro con tre direzioni invarianti. E così via dicendo, passando per mille, proseguendo per centomila, arrivando talvolta anche fino all’infinito. Dove che sia, le domande si susseguono: ha senso parlare di spettro? se si, che informazioni nasconde? definisce in maniera univoca l’oggetto a cui è associato? cosa succede se gli autovalori sono complessi?
Ognuno ha i suoi gusti. A me piace la previsione del futuro: sapere oggi quel che succederà domani. E lo spettro, come alcuni fantasmi, talvolta è in grado di darti i numeri giusti. Nell’evoluzione temporale descritta per equazioni differenziali, capita di lavorare con modelli lineari. Se questo non è il caso, è spesso possibile effettuare una linearizzazione, utile a capire come evolvano piccole perturbazioni di uno stato prescelto. Lo spettro dell’operatore (lineare o linearizzato che sia) descrive modalità di crescita o decrescita di natura tipicamente esponenziale. Autovalori positivi corrispondono a fenomeni di crescita e autovalori negativi a fenomeni di dissipazione. Il modo di manifestarsi di questi effetti è descritto dagli autovettori corrispondenti, tanto che basta conoscere la forma di quelli in crescita per prevedere dalle piccole perturbazioni di oggi, cosa succederà alla fine dei tempi.
Persino gli autovalori complessi trovano una loro collocazione naturale. La formula di Eulero per l’esponenziale complesso assicura che, in questo caso, si è in presenza di un fenomeno oscillatorio nel tempo. La sentite? È una nuova vibrazione suonata da uno spettro proveniente da un irreale aldilà.
Corrado Mascia