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In questi giorni è alta l’attenzione sul DdL Zan e qualche giorno fa il settimanale “L’Espresso” ha pubblicato un articolo in cui fra gli intervistati figurava “Luigi, 27 anni, dottorato in Matematica a Milano, gay”. È Luigi Pollastro, dottorando all’Università di Milano: lo ha incontrato per noi Chiara de Fabritiis, coordinatrice del Comitato Pari Opportunità dell’UMI.

Luigi, come ti descriveresti?

Faccio il primo anno del dottorato di Matematica all’Università di Milano ed è un anno molto singolare dal punto di vista accademico. Riusciamo a seguire più convegni rispetto al solito perché sono a distanza, ma sotto il profilo della componente umana a causa del Covid potrei dire che quasi non esistiamo nella quotidianità, sia con i colleghi sia con i docenti; è veramente difficile consolidare le relazioni interpersonali.

Sono originario di un paese (Montesarchio) del beneventano. Dopo il liceo scientifico a Montesarchio ho fatto la triennale a Roma La Sapienza, poi mi sono spostato all’Università di Milano per la magistrale e il dottorato. Vengo da una piccola realtà di provincia, dall’entroterra più conservatore della Campania; per me è sempre stato chiaro fin da piccolo che dalla mia provincia in molti vanno via perché chi resta sa che le possibilità di crearsi un futuro sono scarse. Il mio è un piccolo paesino, ci sono poche corse di pullman al giorno per Napoli e per Benevento; per arrivare a Napoli ci vuole più di un’ora ed è complicato frequentare l’università da pendolari. Io volevo provare ad andare un po’ più in là, in particolare ho fatto l’Erasmus a Monaco di Baviera per la triennale e nei sei mesi di pausa fra triennale e magistrale ho viaggiato moltissimo.

Il tuo orientamento sessuale non è maggioritario, questo ha influito sulla tua scelta di spostarti prima dal tuo paese e poi da Roma?

Sì, in generale le cose sono chiaramente più complicate perché faccio parte di una minoranza. Una decina di anni fa (ho capito di essere gay nei primi anni delle superiori), in una piccola realtà di provincia del Sud, non conoscevo storie di persone come me, mi sentivo solo al mondo. Per un ragazzo adolescente che si sentiva un unicum e non conosceva realtà analoghe alla sua, era difficile immaginarsi un futuro. Mi chiedevo “Ma io tra 10 anni cosa sarò, cosa potrò fare?”. È un’esperienza comune a molte delle persone LGBT che prima di tutto devono trovare e scoprire sé stesse. C’è anche da considerare una componente religiosa (io sono cattolico), io sono ripartito dal messaggio di “essere a immagine e somiglianza di Dio”, ho realizzato che in me “non c’è niente di sbagliato”, ma questo è il risultato di un lungo periodo di dubbi e fatica. Questo ha certamente contribuito alla mia scelta di spostarmi: se di base al Sud le cose sono complicate, nel mio caso la complessità diventa doppia. Per fortuna ho sempre avuto un’indole curiosa che mi spingeva a ricercare più in là.

Screenshot dell’articolo dell’Espresso del 24 giugno scorso in cui Luigi è stato intervistato.

Ti sei mai sentito discriminato in ambito matematico?

Dal punto di vista accademico, questa intervista è stata l’occasione per fare coming out con il mio relatore a cui ho detto che mi avresti intervistato perché sono gay. Mi ha chiesto se fossi mai stato discriminato in ambito universitario. Ci ho riflettuto, e la risposta breve è “No”: nella mia carriera accademica “fortunatamente” (e l’avverbio dice tanto) non mi sono mai stati rivolti né commenti negativi, tantomeno sono stato valutato negativamente o bocciato. Più che la discriminazione c’è stato spesso il fatto di essere l’elemento di novità “ah, sei il primo gay che conosco…”; adesso interfacciandomi con persone più adulte, a Milano dove c’è una comunità gay più ampia e non è inconsueto fare coming out, questo elemento di novità è meno comune. Quindi discriminazione no, però molti problemi della mia generazione ricadono sulla mia persona doppiamente. Cosa vuol dire vivere in Italia da persona gay? Nella prospettiva di volere una famiglia, l’unica strada per avere dei figli è la Gestazione per Altri. Coniugando questo aspetto con una precarietà di lungo termine nella nostra professione, questo rende le difficoltà del futuro ancora più concrete e reali. Quali sono le mie prospettive? Sono complesse per tutti, ma se sei un membro di una minoranza e’ ancora più complicato.

E poi c’è una realtà più profonda; l’ambiente e la società non sono fatti su misura per me, ci portiamo tutti dietro una serie di pregiudizi: io stesso sono omofobo e sessista perché nasco in una società omofoba e sessista. Inoltre, come minoranza, mi trovo a chiedermi come reagirà una persona con cui vengo in contatto all’apprendere che sono gay. Succede così quando entro in contatto con nuovi colleghi: appartenere a una minoranza ha come conseguenza che devi sempre chiederti cosa succederà interagendo con gli altri, Io devo sempre decidere se mettere questa minoranza sul piatto, per gli altri è una cosa che non devono necessariamente fare. È proprio una cosa strutturale che comporta una serie di fatiche mentali, per decidere e valutare in ogni circostanza. È un fatto particolarmente rilevante perché la nostra professione è basata su un’attività mentale, quindi la mia “salute mentale” conta per il mio modo di portare avanti il nostro lavoro. Sono fatiche aggiuntive, chi ha il privilegio di non averle non immagina quanto pesino.

Ti sei mai sentito “definito” dagli altri, cioè fatto rientrare in una griglia che non ti corrisponde?

Il rischio di sentirsi incasellati c’è, anche se non in malafede. Quando uno porta una caratteristica particolare, alla fine questa spesso diventa la caratteristica dominante. Devo dire che sono fortunato ad essere un matematico: nel nostro ambiente, di solito siamo meno schiavi dei pregiudizi perché il mestiere ci porta ad avere uno spirito critico molto sviluppato. Personalmente sono all’incrocio di tante intersezioni: già essere un matematico è una caratteristica poco comune, inoltre sono una persona religiosa (come ho detto sono cattolico), inoltre sono gay; Insomma sono sempre un po’ “fuori posto”: la Chiesa cattolica non è vista benissimo dalla comunità LGBT, e viceversa; vengo dal Sud e ho fatto l’università da fuorisede, sono un matematico…

Nella tua quotidianità quanto conta il tuo essere gay? E come influisce?

Contare conta, ma dire quanto influisca a livello “pratico” è più articolato. Anche qui ci sono due risposte: a livello immediato, conta poco. C’è però anche una riflessione da fare: essere minoranza mi porta ad essere parte di una comunità, a ricercare l’appartenenza, quindi questo diventa anche una faccia della mia identità. Alla fine io sono in un certo qual senso in una posizione di privilegio: oggi io sono il frutto di una storia di persone che sono state discriminate, se io sono qui e ne posso parlare apertamente e posso dirlo al mio relatore senza avere paura di perdere il posto è perché io sono anche figlio di un’eredità di persone che hanno lottato. Partendo quindi dal dato del mio orientamento sessuale, quello che conta è che io vengo a fare parte di una storia e di una comunità.

A tuo parere, cosa dovrebbe fare una società scientifica per garantire pari opportunità a tutti i suoi membri?

È un po’ la questione “quote rosa”: partiamo dal dato che c’è una disparità di potere, di trattamento, di rappresentanza. Le quota rosa per le donne sono un procedimento che è una forzatura che deve essere temporanea, ma sono un dispositivo necessario per correggere, nella speranza che in futuro non sia necessario. A mio parere la cosa di cui c’è davvero bisogno è di portare storie, di fare una narrazione, di dare punti di riferimento alle persone giovani che non ne hanno. Io quando ero ragazzo a Montesarchio mi sentivo molto solo appunto perché non avevo altre persone cui riferirmi.

Tu ricopri il ruolo di rappresentante dei dottorandi nel tuo dipartimento: hai deciso di farlo anche per sollevare questo tipo di problematiche?

Mi sono offerto di fare il rappresentante perché sostanzialmente non c’era nessuno che volesse farlo, eravamo in sette e ho accettato di farlo. L’idea alla base è quella di rendermi visibile: nei contesti in cui vivo, sui social, nelle mie relazioni con le persone cerco di portare questa narrazione. Con i miei colleghi non c’e’ stato modo, perché in tutto ci saremo visti sette volte in un anno a causa delle restrizioni per la pandemia.

Secondo me, c’è bisogno di fare coming out; pensando alla nostra comunità scientifica, mi viene da dire che c’è bisogno di educarsi. Noi matematici viviamo in una comunità meno gerarchica rispetto al resto dell’accademia, ma facciamo comunque parte della società e quindi non siamo un ambiente neutro. Non possiamo pensare che siamo in un universo staccato da tutto, c’è una necessità di creare un ambiente più aperto e inclusivo.

Quali azioni concrete suggeriresti di mettere in campo? Ci sono grande aziende che fanno formazione al proprio personale su queste tematiche, ti sembra una strada praticabile in ambito scientifico o accademico?

Il problema è che alla formazione non si scappa, anche se sembra sempre che noi all’università ci dobbiamo mettere a fare il corso per parlare di una cosa o di un’altra… Però se non iniziamo a problematizzare la questione, a riconoscerla e non ci diamo gli strumenti per capirla, non andiamo avanti. Io posso portare la mia storia, posso essere visibile, ma a quel punto divento il “ragazzo gay”, quindi ricopro un ruolo in cui sono incasellato. Penso a una formazione che parta magari dai più giovani, perché a mio parere bisogna iniziare dal riconoscere le cose e le persone.

Pensiamo se soltanto si facesse un sondaggio anonimo, fra studenti e personale di ateneo in cui si chiedono delle risposte totalmente anonime su orientamento sessuale, identità di genere… Basta anche solo una domanda in cui ci viene chiesto se conosciamo qualcuno che è gay, lesbica, trans o bisessuale. Giusto per guardare qual è la realtà in cui siamo immersi, l’ambiente in cui stiamo si discosta dalla media? E se sì, come? È improbabile che non si ci sia mai qualcuno gay; mi è capitato spesso di sentirmi dire “In 27 anni sei la prima persona gay che conosco”. Incontriamo tante persone, in molti ambiti della nostra vita (lo sport, le relazioni sociali, la musica, l’università) ma nessuno ci ha mai detto di essere gay, lesbica, bisessuale, trans… Perché nelle nostre comunità le persone non parlano?
Se è un trend così evidente, vuol dire che dobbiamo rendere le nostre comunità più accoglienti per queste persone. Siamo a un paradosso statistico: dov’e’ il 5-10% di persone non eterosessuali che “ci dovrebbero essere” e che invece sono invisibili?

Qual è stato il tuo percorso personale?

Io ho fatto coming out con i mei genitori, è stato molto traumatico, alla fine di un mio percorso lungo e delicato. Bisogna considerare che quando IO faccio coming out, vuol dire che ho capito chi sono, ho accettato chi sono e mi sono accolto. Nel momento in cui te lo dico, TU inizi il tuo percorso. È un dolore che loro hanno dovuto rielaborare, nemmeno ne avevano sentito parlare, non si parlava di omosessualità perché tabù, era male. Le uniche occasioni erano quelle di atti di cronaca violenti. Arrivato a questa serenità personale, mi rendo conto che sono un incrocio di tante cose. Anche essere fuori sede è un’altra intesezionalità, non foss’altro che a livello economico: per le vacanze torni a casa, non hai mai un’appartenenza univoca; in entrambi i posti dove stai sai che devi andare via, aggiunge complessità a un’esistenza già complicata. Quando ero a Roma tornavo a casa quasi tutti i fine settimana, fra l’altro facevo parte di un gruppo cattolico che si chiama Gioventù francescana (fino all’anno scorso sono stato referente regionale lombardo). I giorni feriali li passavo a Roma, ero nella scuola di eccellenza de La Sapienza, sono stato il primo matematico a farla, quindi mi buttavo nello studio; poi tornavo a casa il fine settimana e appartenevo a un gruppo che s’occupava dell’animazione dell’oratorio, era una vita un po’ spaccata fra queste due realtà. A Milano ho messo più radici, anche perché non era possibile tornare a casa tutte le settimane, e questo continua a dire qualcosa di me, del mio essere campano, napoletano.

Questa appartenenza l’hai sentita ancora di più all’estero?

In qualche senso sì, sia durante l’Erasmus, a Monaco, sia quando ho fatto il Camino di Santiago di Compostela. Ho lavorato tanto sulla mia identità, quindi ho deciso di fare il Camino di Santiago con una ragazza protestante tedesca; fra la triennale e la magistrale ho lavorato negli USA in un camp evangelico. Mi confermo nelle differenze: è il processo di mettere in dubbio, che è una cosa molto da matematico, che mi dà stabilità e identità.

Intervista a cura di Chiara de Fabritiis

Nella foto in copertina: Luigi Pollastro, foto di sua proprietà.

Chiara de Fabritiis

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