Matilde Marcolli, classe 1969, insegna al California Institute of Technology dopo essersi laureata all’Università di Milano. Una delle sue passioni? L’attivismo politico, in varie strutture della sinistra extraparlamentare, collettivi anarchici e comunisti.
Qual è il suo campo di studi?
In generale mi occupo di “fisica matematica”, che vuol dire che lavoro sulle strutture matematiche che stanno alle spalle dei modelli della fisica teorica, ma anche che utilizzo strumenti e idee prese da teorie fisiche per ottenere risultati in matematica pura con strumenti nuovi.
Ci racconta il suo percorso universitario (da studentessa e da docente)?
Ho conseguito prima una laurea in fisica, all’universita’ di Milano, ma con un relatore di tesi a matematica e un correlatore a fisica. La tesi era su strutture topologiche delle simmetrie delle teorie di gauge delle particelle elementari. Ho poi preso un dottorato (un PhD) in matematica alla University of Chicago, con una tesi ancora legata alle teorie di gauge, ma da un punto di vista diverso, quello di costruire invarianti delle strutture differenziabili di varieta’ in bassa dimensione (dimensione tre o quattro): un importante problema aperto in topologia. Dopo il PhD ho lavorato per tre anni al MIT come postdoc, e poi per diversi anni all’Istituto Max Planck di matematica come professore associato.
Lei, a soli 28 anni, è stata anche C.L.E. Moore instructor al MIT, un titolo ambito che viene riconosciuto alle “giovani promesse”. Anche da piccola era considerata una bambina prodigio in matematica?
Della scuola negli anni prima del liceo non ho molto da dire, eccetto che e’ stata inutile e noiosa: sapevo gia’ leggere e scrivere a tre anni e quel che ho imparato poi e’ venuto soprattutto dai libri (molti) che avevo in casa.
Il liceo e’ stata la prima esperienza scolastica intellettualmente stimolante e veramente interessante. Ho fatto il liceo classico: la materia che mi piaceva in assoluto di piu’ era il Greco, seguita da Filosofia e Storia dell’Arte. Di matematica nei licei classici purtroppo si fa poco o niente: una brutta eredita’ dello stupido Crocianesimo che ancora appesta le istituzioni scolastiche italiane. Ad ogni modo sono stati anni che ricordo come molto belli e in cui ho imparato molto. Da un punto di vista di formazione culturale generale e’ stata un’ottima esperienza, anche se la cultura scientifica ho dovuto farmela fuori dalla scuola, in buona parte attraverso l’accesso agli ottimi libri economici di matematica e di fisica superiore importati dall’allora Unione Sovietica (la famosa casa editrice Mir) attraverso il partito comunista, ed in parte anche grazie ad amici di famiglia che avevano una formazione scientifica e che mi davano buoni suggerimenti su cosa leggere. Alla fine le scelta di una carriera scientifica ha avuto molto a che fare con la formazione ideologica marxista e con l’idea che la scienza sia il metodo migliore a nostra disposizione per cercare di dare senso al mondo che ci circonda.
Poco dopo la laurea all’Università di Milano lei è subito andata a studiare all’estero e non è più tornata. Ci racconta questa sua scelta?
Era l’inizio degli anni ’90: l’Europa stava cambiando, ed era difficile prevedere come. La scienza in Italia e’ sempre stata poco valorizzata. Non basta?
Si pensa che i matematici esprimano le loro idee migliori fino a quarant’anni. Lei, che di anni ora ne ha 42, cosa pensa di questa idea?
Nella tipica carriera scientifica nei centri di punta del settore, una persona tipicamente arriva intorno ai quarant’anni al livello piu’ avanzato: professore ordinario, direttore di un laboratorio eccetera. (In Italia le carriere sono piu’ lente per via di una burocrazia arretrata e soffocante, nonche’ della cronica carenza di risorse, ma quella italiana non e’ per niente una situazione tipica.) Quello che tipicamente succede e’ che, raggiungendo quel livello di carriera, aumentano drasticamente gli impegni di carattere amministrativo che sottraggono tempo alla ricerca: l’insegnamento, gli studenti da supervisionare, la burocrazia di dipartimento, le domande di fondi, tutte cose che uno riesce in gran parte ad evitare nei primi anni della carriera accademica. In altri campi della scienza si riesce forse meglio a gestire questi impegni senza far diminuire la produzione di ricerca, perche’ il lavoro di ricerca e’ strutturato diversamente, piu’ basato sul lavoro di gruppo nei laboratori, meno sull’impegno di tempo continuo del singolo ricercatore.
In matematica e’ piu’ difficile, il che spesso significa un calo di produttivita’ scientifica, da cui viene la favola della matematica e i quarant’anni. Conosco matematici famosi che lavorano in istituti di ricerca senza insegnamento e senza quasi burocrazia e che a settant’anni sono ancora tanto produttivi quanto lo erano a trenta.
Secondo lei, l’università italiana premia e sostiene i suoi elementi più dotati?
La formazione scientifica nelle universita’ italiane era senz’altro eccellente. Parlo soprattutto di quella che ho conosciuto piu’ da vicino, e cioe’ in fisica teorica, e negli anni prima di tutte le abominevoli riforme e controriforme a cui e’ stata soggetta l’universita’ italiana negli ultimi decenni. Allora era molto facile per bravi laureati italiani trovare accesso ai migliori centri di ricerca e universita’ all’estero. Ora vedo molto pochi studenti italiani arrivare allo stesso livello e temo che possa essere un sintomo che la preparazione universitaria e’ cambiata, non necessariamente nel modo piu’ soddisfacente. L’atmosfera che ricordo allora nell’universita’ era molto stimolante intellettualmente e senz’altro ci spingeva a dare il meglio e ad imparare molto e di piu’ di quel che era strettamente richiesto dal curriculum e dagli esami. E’ stato senz’altro grazie a quel periodo universitario e a tutto quello che ho imparato in quegli anni che sono poi riuscita a continuare con successo negli stadi successivi. Ancora oggi uso continuamente nel mio lavoro quello che ho imparato in quegli anni.
Può farci un confronto con le istituzioni scientifiche straniere, data anche la sua esperienza personale?
Per riuscire nella carriera scientifica quando si e’ giovani, ci vuole che l’ambiente di lavoro abbia molta flessibilita’, niente burocrazia, nessuna struttura gerarchica, e una buona disponibilita’ di fondi.
Da questo punto di vista le buone universita’ americane soddisfano tutti questi criteri. In Europa, nella mia esperienza, sono poche le istituzioni che hanno questi requisiti: in Germania il sistema degli Istituti Max Planck riesce spesso a soddisfare questi criteri, ed e’ un ottimo ambiente di lavoro, ma le universita’ no: hanno troppa struttura gerarchica rigida e intrattabile. La scienza ne soffre.
Nel campo del lavoro, essere giovani in Italia è diverso dall’essere giovani all’estero?
Non ho mai fatto l’esperienza di lavorare in Italia. La formazione che si ha da studenti, come dicevo prima, e’ molto buona. Da quel punto di vista, per studenti bravi e motivati, non penso faccia troppa differenza. Il problema viene dopo: una volta completati gli studi, che possibilita’ si aprono per un giovane scienziato? All’estero senz’altro ci sono molte piu’ opportunita’.
Sul lavoro, le è mai capitato qualche episodio divertente, legato allo stupore altrui nel constatare la sua giovane età?
No, dal punto di vista generale della carriera accademica e scientifica non sono in una fascia di eta’ diversa da quella che normalmente ci si aspetta in questo ambiente. Al primo convegno scientifico a cui andai molti anni fa (ma quello era in Italia dove si ha una percezione diversa di questi fattori di eta’) qualcuno si stupi’: avevo ventun anni.
Lei riassume in sé quelli che potrebbero essere considerati due grandi “ostacoli”: il fatto che sia una donna e il fatto che sia giovane. La combinazione di questi due fattori le è stata mai di intralcio, nel suo lavoro?
Come dicevo, “giovane” non si applica gran che nel mio ambiente: ho l’eta’ che ci si aspetta che uno abbia al mio livello di carriera, ne’ piu’ ne’ meno. Le donne sono senz’altro ancora in minoranza nelle posizioni accademiche scientifiche, specie quelle di alto livello, e questo e’ ancora un effetto di quella che e’ stata sempre la marginalizzazione della donna nella societa’ tradizionale. La societa’ per fortuna cambia e alla fine spariranno anche queste differenze.
Se l’essere donna puo’ rendere le cose difficili nella carriera scientifica e’ difficile a dirsi: ci sono studi che cercano di individuare il “bias” inconsapevole che colleghi possono avere e come si manifesti, ma quando questo accade e’ di solito in forme sottili ed implicite, per cui e’ difficile direttamente accusare qualcuno di parzialita’. E’ proprio il fatto che i pregiudizi siano subdoli e spesso inconsci che rende difficile combatterli efficacemente.
Ha qualche hobby, passione, oltre alla matematica?
L’attivismo politico, in varie strutture della sinistra extraparlamentare, collettivi anarchici e comunisti; occasionalmente scrivo romanzi, racconti, pezzi teatrali; mi piacciono l’arte astratta e surrealista e la musica atonale.
Trackback/Pingback