L’America dimenticata, l’ultimo libro di Lucio Russo (giunto già alla seconda edizione con postfazione di obiezioni e risposte). ha attirato curiosità e attenzione per l’arditezza delle sue argomentazioni. Oltre ai numerosi attestati di stima e apprezzamenti, oltre all’articolo che gli abbiamo dedicato, il libro ha stimolato una discussione non priva di momenti polemici ai quali l’autore non si è sottratto. Il confronto su questo volume così suggestivo continua anche sulle pagine di MaddMaths!, in questa intervista che Lucio Russo ci ha gentilmente concesso.
Professor Russo, cominciamo allora da alcuni rilievi che le sono stati mossi. Nella sua recensione, .mau. ha sostenuto che l’imponente quantità di dati che porta a favore della sua tesi può dare l’idea di essere stata scelta “apposta per avvalorare la tesi”. Cosa risponde?
Dire che io avrei “scelto apposta i dati per avvalorare la tesi” significa accusarmi di disonestà intellettuale ed è molto scorretto farlo senza portare alcun elemento a sostegno di un’accusa così pesante. Il mio campione è stato scelto con due criteri che sono descritti chiaramente nel libro:
1. Mi sono limitato alle regioni meglio note in epoca ellenistica (penisola iberica a est di Gibilterra, Gallia meridionale, penisola italiana, Grecia e Macedonia, costa mediterranea del’Africa, Egitto, Stati ellenistici asiatici).
2. Di tali regioni ho scelto le città più famose.
Per criticare seriamente la mia formazione del campione occorre evidentemente o criticare i criteri precedenti oppure mostrare con esempi perché tali criteri non sono stati seguiti in modo coerente. Chi ha mosso questa critica non ha fatto né una cosa né l’altra.
Sempre .mau. sostiene, inoltre, che è vero che l’Italia disegnata secondo le coordinate di Tolomeo è molto più schiacciata rispetto al vero, ma Otranto e Reggio ritornano nella posizione corretta: insomma il problema potrebbe essere che Tolomeo prende fonti a caso e le assembla, quindi non è banale scegliere le località.
Ho avuto modo di scambiare alcune opinioni con il lettore su questa idea ma quando gli ho chiesto di fornirmi un esempio di località che avrei escluso perché non avvaloravano la mia tesi, mi sono state proposte Ancona e Spalato, la cui differenza di longitudine sarebbe stata diminuita e non aumentata da Tolomeo. In realtà Spalato non è tra le 6345 località prese in considerazione da Tolomeo (credo fosse un villaggio insignificante prima che Diocleziano lo scegliesse come propria sede), mentre Ancona è una delle ottanta città del mio campione e la longitudine assegnatale da Tolomeo differisce solo di 8 minuti da quella calcolata con la mia retta di regressione. Sulla deformazione della penisola italiana operata da Tolomeo ci si confonde: in realtà Otranto e Reggio (come in generale la Puglia e la Calabria) non sono affatto “nella posizione corretta” ma proprio dove dovrebbero essere essere in base alla dilatazione da me analizzata.
L’impressione che “ritornino nella posizione corretta” è dovuta al fatto che il resto dell’Italia, dalla pianura padana fino alla Campania, è ruotata notevolmente più di quanto avrebbe dovuto in base alla dilatazione generale e per questo motivo l’Adriatico risulta particolarmente stretto. Questo “errore secondario” di Tolomeo, che si sovrappone alla sua dilatazione sistematica, è tuttavia ben rappresentato nel mio campione, che contiene sia Crotone, Reggio Calabria, Taranto e Brindisi (che a parere di questi critici rimetterebbero le cose a posto) sia città come Genova, Populonia, Roma, Cuma, Paestum Ravenna, Camerino e Capua, le cui longitudini sono affette appunto dall’ “errore secondario” di Tolomeo. Tenendo conto di queste località il valore del coefficiente di determinazione è risultato 0,9935. Altrimenti sarebbe stato ancora più vicino a 1.
Nella già citata recensione di .mau., che compare anche sul sito di Amazon, si prosegue chiedendo “perché, se ci fosse davvero stato un contatto di qualche secolo tra fenici/cartaginesi e le Piccole Antille, nessuno è mai arrivato sulle coste settentrionali del Sudamerica che sono lì vicine? Insomma, mentre un contatto casuale potrebbe esserci stato, uno continuativo appare più problematico”
Qui mi sfugge completamente sia la logica della prima affermazione, sia l’eventuale nesso logico con la seconda frase. Io sostengo che le fonti di Tolomeo conoscessero le coordinate delle Piccole Antille e quindi che tali isole fossero state raggiunte da navigatori del Mediterraneo. Ciò evidentemente non implica affatto che nessuno sia andato altrove. Perché mai lo dovrebbe? E perché mai la frase “un contatto casuale potrebbe esserci stato, uno continuativo appare più problematico”, che di per sé è sensata, è preceduta da quell’ “insomma”? Non vedo alcun nesso logico.
Lei si sarebbe inventato un “avversario” di comodo, dato che il determinismo storico che con questo libro vuole combattere “è morto e sepolto”. E’ così?
Come spiego chiaramente, nel mio libro l’espressione “determinismo storico” è usata per indicare la tesi che una serie impressionante di elementi culturali, dalla tessitura alla metallurgia, dalla scrittura all’introduzione dello zero, dall’urbanizzazione all’introduzione di particolari giochi da tavola, sarebbe stata riscoperta indipendentemente da civiltà diverse senza alcun contatto reciproco. Si tratta di una tesi tutt’altro che morta e sepolta, in quanto è accettata dalla quasi totalità degli storici, Barbero, che ha mosso questa critica, incluso (come mostra appunto criticando la tesi opposta sostenuta da me). Barbero, giocando con le parole, o forse non avendo letto con attenzione il libro che recensisce su La Stampa, si riferisce evidentemente a un significato del tutto diverso con cui nel passato è stata usata la stessa espressione “determinismo storico”.
A questo punto citiamo esplicitamente anche noi il nome di Alessandro Barbero, che, sempre su La Stampa, continua: “Il fatto che i navigatori antichi, forse cartaginesi, si siano potuti spingere fino alla Antille non significa automaticamente che si siano spinti anche oltre, scoprendo un intero continente”. Come replica?
Nessuno ha mai parlato di una simile conseguenza automatica. Faccio notare però che nello stralcio precedente mi avevano fatto l’obiezione opposta, chiedendomi come mai non sarebbero arrivati sul continente. Mi sembra comunque importante non fare confusione fra tre affermazioni completamente diverse:
A) I Cartaginesi o altri antichi navigatori avevano scoperto l’intero continente americano.
B) Nell’antichità si erano avanzati argomenti convincenti a sostegno dell’ipotesi che esistesse un continente che separa l’oceano a ovest di Gibilterra da quello a est dell’Asia.
C) Nell’antichità i Fenici, o i Cartaginesi o altri navigatori, erano approdati in qualche particolare località del continente americano.
Penso che l’affermazione A, che mi sono ben guardato dal fare, sia semplicemente una follia. L’affermazione B è invece pienamente documentata dal passo che riporto di Strabone. Quanto alla C, mi sembra un’ipotesi del tutto ragionevole, a favore della quale si possono trovare anche vari indizi in letteratura, ma certamente non è supportata da elementi così stringenti come quelli che riguardano le Piccole Antille (e non ho mai pensato che fosse una conseguenza “automatica” dell’aver raggiunto le Piccole Antille).
E poi : come sarebbe potuta andare perduta una conoscenza così grande come quella derivata da un nuovo continente?
Questa è evidentemente una domanda capziosa, che tenta di far passare come scontata l’affermazione A che ho appena rifiutato con forza. Se la si riformula chiedendosi come mai si fosse persa la conoscenza di alcune particolari località al di là dell’Atlantico, la risposta diviene banale. Non sarebbe che un’altra di tante conoscenze che sappiamo essersi perdute. Rimanendo nell’ambito della geografia, non si era perduta anche la conoscenza della banchisa polare visitata da Pitea? Non si era perduta anche la scoperta di Vinland da parte dei Vichinghi? I Romani non avevano perduto anche la conoscenza dell’Africa equatoriale visitata da Annone?
Il tracollo culturale del mondo mediterraneo, con la distruzione di Cartagine e la conquista romana del mondo ellenistico, che lei invoca come motivo di questa perdita, secondo Barbero non si sarebbe mai verificato. Cosa risponde?
Rispondo che evidentemente Barbero non conosce la storia della scienza antica. Come conseguenza di quel tracollo culturale si persero conquiste intellettuali come l’eliocentrismo, la relatività del moto e il convenzionalismo linguistico. Per circa tre secoli si perdette anche l’uso delle coordinate sferiche (latitudine e longitudine). Un capitolo del mio libro illustra quel tracollo culturale, ma l’affermazione di Barbero, mostrando come sia diffusa la sottovalutazione di questo fenomeno, mi ha convinto dell’opportunità di scrivere un intero libro sull’argomento.
Una delle prove citate nel libro dei contatti tra Mediterraneo e continente americano sono le opere d’arte romane in cui è raffigurato qualcosa che somiglia a un ananas, che è originario del Sud America. Barbero fa però notare che queste opere risalgono al II secolo d. C., tre secoli dopo il collasso culturale citato in precedenza, che aveva cancellato i ricordi dei viaggi verso le Antille. Come risponde?
Innanzitutto debbo dire che l’argomento degli ananas è ricordato nel mio libro come esempio degli argomenti non conclusivi portati tradizionalmente a favore di antichi contatti tra le due sponde dell’Atlantico, proprio per contrapporli all’argomento, a mio parere ben più solido, basato sulle coordinate riportate da Tolomeo. Ho comunque due risposte alla domanda. Una è che alcune raffigurazioni di ananas potevano ben basarsi sull’imitazione di raffigurazioni più antiche. La tradizione iconografica può cioè essere sopravvissuta alla fine dell’approvvigionamento dei frutti.
“Le navi, insomma, salpavano per le rotte americane e tornavano cariche di prodotti, i consumatori mangiavano l’ananas, solo il governo e gli scienziati non sapevano nulla. Questa idea dei viaggi proseguiti all’insaputa delle autorità è suggerita in vari punti del libro, tentando di non farne cogliere l’enormità al lettore, ma l’incongruenza è così grave da rimettere in discussione la tesi di fondo” scrive Barbero. Come risponde?
Non basta tacciare di “enormità” un’affermazione per screditarla. Bisognerebbe anche portare qualche argomento. è ben noto a moltissimi storici (anche se evidentemente non a tutti) che le rotte erano un segreto custodito con cura. Non vedo alcun motivo perché la conoscenza di alcune rotte da parte di piccoli gruppi di marinai (nel nostro caso penso soprattutto a marinai di Cadice) non potesse conservarsi a insaputa di geografi e generali. Si tratta di un fenomeno ben noto in molti casi: ad esempio, Duane W. Roller lo sottolinea nel caso delle rotte per l’India (Through the Pillars of Herakles. Greco-Roman exploration of the Atlantic, Routledge, New York-London 2006, pp.112-114).
Una domanda che emerge da alcune recensioni online. Se le Isole Fortunate fossero le Antille e non le Canarie, dove sono finite le Canarie, che al tempo di Tolomeo erano ben note?
A questa domanda credo di avere già risposto nella seconda edizione del libro. Essa nasce dal fondere le conoscenze di due autori diversi (nel nostro caso Ipparco e Tolomeo), immaginando che si abbia a che fare con un’unica descrizione coerente. Dove erano finite le Canarie per chi? Per Tolomeo lo sappiamo bene: erano finite al largo dell’Africa, ma avevano assunto latitudine e forma delle Piccole Antille, che egli ignorava completamente. Se invece ci si chiede dove erano finite la Canarie per Ipparco, che conosceva le Piccole Antille, la risposta non può essere certa perché non abbiamo la sua opera geografica. Non vi è però alcun motivo per non supporre che fossero là dove sono realmente. Perché avrebbe dovuto essere considerate altrove? E dov’è il problema?
E ancora: è vero che i babilonesi e poi i greci conoscono lo zero, ma per loro non è un vero e proprio numero, almeno fino alla matematica indiana del VII d.C. Come mai proprio i cartaginesi e i romani sarebbero coloro che portano lo zero ai precolombiani? E perché la ruota no?
Qui ci muoviamo su congetture e non sul terreno più solido della geografia matematica. Sull’affermazione che lo zero sarebbe divenuto un “vero e proprio numero” solo nella matematica indiana del VII secolo ho molti dubbi. Come si stabilisce quando un numero diventa “vero e proprio”? Lo zero dei Maya era “vero e proprio”? A me non sembra che lo fosse più di quello babilonese.
Su questi argomenti mi limito a osservare che:
1. Sia la ruota sia lo zero appaiono nel vecchio mondo una sola volta; non sono mai stati reinventati indipendentemente e se ne può seguire la progressiva diffusione.
2. Sia la ruota sia lo zero, a parte le regioni del Vecchio Mondo già citate, riappaiono solo nella Mesoamerica (la ruota come elemento di modellini).
3. Le Piccole Antille, sulle quali abbiamo ora elementi molto seri per sostenere che fossero state raggiunte nell’antichità da popolazioni del Vecchio Mondo, fanno parte della Mesoamerica.
Qualsiasi congettura per essere proponibile deve essere coerente con i tre punti precedenti. Ci si può certo chiedere perché mai i precolombiani, conoscendo le ruote dei loro modellini, non abbiano costruito veri carri con ruote, ma non vedo alcun possibile nesso logico tra questo problema (che è posto in ogni caso da fatti ben documentati, quali sono la presenza di modellini con ruote e l’assenza di trasporto su ruote) e le mie tesi.
Nel suo libro è scritto: “Nelle scienze esatte se si introduce un’ipotesi semplice, coerente con teorie già accolte, non contraddetta da alcun fenomeno, che riesce a spiegare, anche quantitativamente, molti fatti altrimenti misteriosi e privi di relazione reciproca, non vi è dubbio che l’ipotesi divenga il fondamento di una teoria accettata. Credo che lo stesso criterio dovrebbe essere seguito anche in storiografia […]”. All’ultimo Salone del libro di Torino, sempre Barbero ha obiettato, in sintesi, che si tratta di un criterio che può bastare agli scienziati, “ma non a noi storici. A noi interessa la verità”. Cosa risponde?
Avevo letto più volte un argomento analogo (ad esempio in scritti di Tommaso d’Aquino e del cardinale Bellarmino) per sostenere l’inferiorità della scienza rispetto alla teologia, ma l’estensione dell’argomento dalla teologia alla storia è certo un’originale innovazione di Barbero, che illustra bene la sua epistemologia. Non credo sia necessaria una risposta.
[intervista raccolta da Stefano Pisani]
continua a mancare la risposta a una domanda fondamentale.
Non ho problemi ad prendere come ipotesi di lavoro che alcuni navigatori nell’antichità siano arrivati alle Piccole Antille. Bene: ma come hanno fatto a calcolarne la longitudine con tanta precisione? Russo stesso ricorda che il calcolo della longitudine è un dannato casino: il primo che ha trovato una possibile soluzione (astronomica, e che poteva essere usata in relazione a fenomeni particolari come eclissi) è stato Ipparco, che però ha iniziato le sue osservazioni in contemporanea con la distruzione di Cartagine, quando sicuramente i cartaginesi non andavano a dire cosa stavano facendo.
Vogliamo allora postulare che fenici e/o cartaginesi avevano a loro disposizione orologi precisissimi per stimare la longitudine, o forse che avevano trovato indipendentemente e con decenni se non secoli di anticipo metodi astronomici per ricavare la longitudine? (si noti che immaginare questi dati di longitudine siano arrivati intatti agli ellenisti in modo da poter calcolare l’Ecumene sarebbe meno implausibile: se non hai navi per arrivare fin là ti serve a poco sapere che c’è una terra, quindi i dati di longitudine e latitudine possono anche essere resi pubblici)
La mia sensazione è che l’Ecumene sia stato *definito* come ampio 180 gradi per ragioni di simmetria, e quindi il lato ovest sia stato calcolato come quello dal lato opposto rispetto alle città più orientali del Catai. Solo in seguito qualcuno ha associato le Isole Fortunate come il limite occidentale dell’Ecumene, e in seguito Tolomeo ha incasinato ancora di più le acque associandole alle Canarie e quindi dovendo scalare la misura dello stadio per far tornare i conti. Che le Piccole Antille siano in quella posizione è un accidente geografico, e ciò non ha alcuna relazione con il fatto che navigatori dell’Occidente ci siano arrivati prima del II secolo aC.
(Noto con piacere che la tesi ora comunque è appunto “si è arrivati alle Piccole Antille”, e non “si è arrivati al continente americano”, anche se non riesco ancora a capire come l’ipotesi di rotte commerciali durate vari secoli e che attraversino l’Atlantico – cito, «Non vedo alcun motivo perché la conoscenza di alcune rotte da parte di piccoli gruppi di marinai (nel nostro caso penso soprattutto a marinai di Cadice) non potesse conservarsi a insaputa di geografi e generali.» non abbiano portato i marinai a percorrere anche la relativamente piccola distanza ulteriore verso le coste sudamericane)
Se avessimo solo vaghe notizie qualitative sugli antichi metodi per misurare le longitudini, sarebbe ragionevole opinare sulla base di “sensazioni”, come fa .mau. Il punto che sembra continui a sfuggirgli è che noi abbiamo invece una grande quantità di dati quantitativi, tra loro coerenti, che io ho usato e lui continua a ignorare, evitando accuratamente di entrare nel merito dei miei calcoli. La precisione delle antiche misure di longitudine non può essere dedotta dalle nostre idee sugli antichi strumenti, ignorando il valore in gradi e minuti delle tante longitudini riportate da Tolomeo. L’idea di .mau. che tale massa di dati non possa essere utilizzata se non dopo avere spiegato come erano stati ottenuti inverte il procedimento logico, consistente nel partire da dati certi (nel nostro caso i numeri riportati da Tolomeo) per arguire su fatti incerti (come le circostanze in cui furono effettuate le misure). La misura di 180 gradi potrebbe sembrare ottenuta per motivi estetici se non differisse dalla differenza di longitudine tra la capitale della Cina e le Canarie proprio dello stesso fattore di dilatazione calcolato con la mia retta di regressione. Si può immaginare che quando per la prima volta le conoscenze geografiche si estesero a metà del mondo, raggiungendo località sul semimeridiano opposto a quello di altre località note, la circostanza fosse stata sottolineata e che il ricordo di tale impresa sia stato conservato.
Prendo atto che non c’è risposta alla mia domanda “come si è potuto calcolare la longitudine delle Isole Fortunate”. Non ho altro da aggiungere.
Il punto importante, che può essere verificato, è che quella longitudine era stata misurata. Su come avessero fatto sono possibili varie ipotesi, la più semplice delle quali è che fosse stata notata l’ora di inizio di un’eclisse di luna. Si può anche immaginare che l’ora fosse stata notata non per questo scopo e che sia stato Ipparco ad usare questo dato per calcolare la longitudine. Ma tutte queste sono congetture e non fatti certi. In ogni caso non si può usare l’incertezza sul procedimento usato per mettere in dubbio il risultato numerico che ci è stato trasmesso, come sembra voler fare il mio interlocutore.